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Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.07.2020 L’ombra del nemico: il terrorismo islamico
Commento di Elisabetta Rosaspina

Testata: Corriere della Sera
Data: 10 luglio 2020
Pagina: 38
Autore: Elisabetta Rosaspina
Titolo: «Lungo le strade della jihad. Viaggio al centro dell orrore»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/07/2020, a pag.38, con il titolo "Lungo le strade della jihad. Viaggio al centro dell orrore ", il commento di Elisabetta Rosaspina.

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Elisabetta Rosaspina

Isis, l'ombra del nemico tra nuove sfide e minacce - Corriere TV
Marta Serafini - la copertina del libro (Solferino ed.)

Ci vogliono cautela, perspicacia, lucidità, passione, pazienza, tenacia e tanto studio per non cadere negli stereotipi di cui è disseminata la lunga storia recente del terrorismo islamico. L’ombra del nemico di Marta Serafini (Solferino editore) parte proprio da qui. Dalle trappole della semplificazione. Dagli angoli bui di un labirinto, o piuttosto di un tunnel dell’orrore, dove si mescolano voci, proclami, esplosioni, urla strazianti, immagini feroci, vittime, carnefici, burattinai e realtà talvolta così banali da diventare trasparenti. Anzi, invisibili. Così, una giornalista del «Corriere della Sera» che da bambina sognava di fare la cacciatrice di serpenti si è spinta per quattro anni negli anfratti del movimento jihadista, per esplorare i lati nascosti dei suoi tentacoli. Per trovare risposte. Sul campo, quando ha potuto, o nei meandri di internet, attraverso ricerche meticolose e interviste quasi impossibili come quella via Skype a Maria Giulia Sergio, la prima foreign fighter italiana, convertita all’Islam con il nome di Fatima e partita ventottenne da Inzago, a nord est di Milano, per unirsi al Califfato, in Siria, nel 2014. Seguiva il marito, il miliziano albanese Aldo Kobuzi, certo, ma anche i capisaldi di un indottrinamento che Marta Serafini ha tentato di sviscerare, prima che «Fatima» sparisse di nuovo, forse per sempre, inseguita da una condanna definitiva in contumacia a 9 anni, per terrorismo internazionale. Quegli unici venti minuti di conversazione, nell’estate del 2015, hanno richiesto mesi di lavoro, di indagini, di richieste respinte dalla famiglia, di inseguimenti virtuali per riuscire a intravedere soltanto qualche certezza nella confusione mentale della jihadista italiana, che cercava di reclutare perfino i suoi genitori e la stessa giornalista: «Lo Stato islamico, sappi Marta, è uno Stato perfetto». Come ci è cascata e perché tanti ci sono cascati come lei e magari ci cascheranno ancora? Perché? È soltanto una delle domande, e forse una delle più urgenti, che hanno accompagnato l’autrice nei suoi viaggi in Medio Oriente, mentre il cuore d’Europa era sotto attacco a Parigi, dalla strage di «Charlie Hebdo» a quella del Bataclan, dagli attentati all’aeroporto di Bruxelles e all’Arena di Manchester dopo un concerto di Ariana Grande, a quelli contro il mercatino di Natale a Berlino, di nuovo in Francia, sul lungomare di Nizza, l’anno dopo sulla Rambla di Barcellona e, nel dicembre 2018, tra le bancarelle natalizie di Strasburgo. L’Isis si è attribuita bulimicamente tutto, anche le maldestre azioni di sconosciuti lupi solitari armati di un comune coltello.

Ma era soprattutto nel suo allora vasto territorio che il califfo Abu Bakr Al Baghdadi controllava i rubinetti del sangue. E, per infrangere i suoi giochi di specchi, per smontare la sua sofisticata propaganda, per fermare la guerra e arginare la fuga disperata di sudditi e schiavi sopravvissuti, non bastano gli eserciti. Occorre trovare e ascoltare i testimoni. Occorre capire. Ci sono gli studiosi, gli storici, i ricercatori, l’intelligence. Spiegano le strategie del potere, le alleanze, i teatri dei conflitti, gli interessi economici in palio. E il libro di Marta Serafini dà conto di analisi e opinioni, ma è dai centri di detenzione per minori di Erbil, nel Kurdistan iracheno, che scaturiscono le pagine più illuminanti: «Non sono cattivo. Ma mi hanno addestrato per otto mesi, mi hanno insegnato a sparare e a fare la lotta» racconta Youssef, ex bambino soldato di Al Baghdadi. Gli hanno certamente fatto di peggio, gli hanno inculcato l’odio dal quale un imam ogni venerdì prova ora a disintossicarlo: «Estirpare certe idee non è possibile, si tratta piuttosto di modificarle», spiega il capo delle guardie alla giornalista. Senza attraversare le stanze devastate del Nineveh hotel di Mosul, l’albergo di lusso occupato dall’Isis dopo la conquista della città, e calpestare tappeti di bossoli o sfiorare pareti trasudanti sporcizia è più difficile percepire interamente la tragedia delle «spose di guerra» che i miliziani hanno seviziato in quei locali dopo averle costrette a indossare pacchiani abiti da sera e lingerie di seta made in China. È parlando con un medico siriano sfollato nel campo di Arbat nel Kurdistan iracheno, che l’autrice scorge i lineamenti del nemico celato nell’ombra, ma ben vivido nella memoria delle sue vittime. È accompagnando gli operatori delle organizzazioni non governative italiane e straniere che entra dietro le quinte. A bordo dell’Aquarius la cronista si trasforma in volontaria per ritrovare tra le naufraghe la mamma di Mohamed, un bimbo smarrito di sei anni. Assiste al recupero di una partoriente, con il neonato ancora attaccato alla madre dal cordone ombelicale. Riprende il taccuino degli appunti. I capitoli rimbalzano dalle emergenze umanitarie alle rotte della droga, con ramificazioni in Afghanistan e l’ombra lunga dell’Isis per puro amore del dio quattrino. Ed è entrando a Pol-i-Charkhi, il carcere di Kabul, che Marta Serafini si conquista sul campo l’opportunità di ascoltare come funziona quel commercio dalla voce di uno dei protagonisti. Non tutti gli enigmi troveranno risposta. Conserva zone d’ombra il destino dei famigliari di prigionieri dell’Isis, donne e bimbi in molti casi apolidi rinchiusi nel campo di Al Hol: «Voglio sentire cos’hanno da dire — s’intestardisce lei —. Voglio sapere come vengono trattati». Senza giudicarli, senza condannarli. Cercando solo il bandolo della matassa.

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