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Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.06.2020 La nuova edizione di 'Il mago di Lublino', di Isaac B. Singer
Recensione di Alessandro Piperno

Testata: Corriere della Sera
Data: 28 giugno 2020
Pagina: 20
Autore: Alessandro Piperno
Titolo: «Il mago di Singer. Non ti libererai del tuo passato»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 28/06/2020, a pag. 20, con il titolo "Il mago di Singer. Non ti libererai del tuo passato", la recensione di Alessandro Piperno.

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Alessandro Piperno


Il mago di Lublino - Isaac Bashevis Singer - eBook - Mondadori Store
La copertina (Adelphi ed.)

Ci sono massime sapienziali, di per sé non cretine, ma erose dall'uso al punto da aver smarrito ogni freschezza, assumendo con il tempo il timbro petulante e funebre dei grandi cliché. Frasi pomposamente oracolari che screditano sia l'incauto mandarino che le ha ideate, sia chi le cita per l'ennesima volta con aria grave e allusiva. Questa è la mia preferita (e con ciò intendo quella che detesto di più): «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». Immagino che Bertolt Brecht — e lo dico senza essere mai stato un suo sfrenato sostenitore — abbia elaborato proposizioni parecchio più folgoranti di quella appena trascritta. Eppure, niente di ciò che lo riguarda sembra godere della fortuna e della longevità toccata in sorte a questo cioccolatino ripieno di civismo apocalittico. Le cose si complicano quando l'autore della massima fortunata è uno scrittore che amo profondamente. Allora l'irritazione cede il passo all'imbarazzo, l'imbarazzo alla tristezza, la tristezza al desiderio di vederci chiaro. «Scrivo in yiddish, perché con questa lingua non si sono mai dati ordini ai militari». Pare che così rispondesse Isaac B. Singer a chi gli chiedeva perché si ostinasse a scrivere in una lingua morta e sepolta, parlata da pochi attempati apolidi sopravvissuti alle purghe hitleriane per il rotto della cuffia. A una questione seria, quindi, ecco Singer trincerarsi dietro a una replica omertosa, abbastanza melensa da mandare in estasi qualche bennata anima pacifista. Vien da chiedersi cosa avesse Singer contro le gerarchie militari. Tanto per dire, dubito che qualcuno avrebbe rischiato la pelle sulle coste della Normandia una certa mattina del '44 se non avesse ricevuto un preciso ordine superiore. E allora perché Singer — temperamento pugnace, anticonvenzionale, cinico, e quando ci si metteva persino malvagio — dimostra tanta severità per le forze annate? Probabilmente perché certe domande gigantesche costringono chi le riceve a una certa ponderata elusività. e Cos'altro avrebbe potuto rispondere, dopotutto? Vediamo un po', perché scrivo in yiddish? Perla stessa ragione per cui Shakespeare scriveva in inglese o Puskin in russo. Perché non posso farne a meno. Perché è così che son fatto e funziono. Perché la lingua è una malia, e mi possiede più di quanto io possegga lei. Perché la sola verità di cui dispone uno scrittore è la lingua in cui scrive, verità confortata dalle solite celebri eccezioni: Conrad, Nabokov, Beckett, Kundera e compagnia bella. Del resto, la si può mettere anche altrimenti, notando come la lingua di uno scrittore abbia sempre un piede nella fossa. Si tratta, infatti, di un idioma accessibile ai più ma che solo uno è in grado di far fruttare e rendere espressivo. Un idioma, insomma, destinato a sopravvivere a chi gli ha prestato un servigio prezioso, ma solo come mera testimonianza di ciò che è stato e non sarà più. Venendo al nostro caso, Singer scriveva nella duttile profumata lingua degli shtetl — villaggi ebrei dell'Europa orientale spazzati via dalla Storia a metà del secolo scorso — perché lì era rimasto: non solo in spirito, ma considerando la vivacità di certe evocazioni persino nel corpo. Evidentemente solo l'yiddish — spurio, promiscuo, stratificato, a suo modo artificiale, frutto di mille mescolanze, parlato dagli ebrei askenaziti ma non solo — era in grado di lambire il lirismo ironico, tenero e canagliesco necessario a riportare in vita gli spettri da cui Singer non smise mai di essere perseguitato. Un mondo, quello degli shtetl, che ritrovo qui, nel Mago di Lublino, nella nuova edizione adelphiana resa prelibata dalla turgida versione di Katia Bagnoli (dall'inglese). Un romanzo nel quale gli eventi hanno luogo con strabiliante rapidità (tutto precipita), come se uno dei suoi famosi racconti gli avesse preso la mano. La cosa che più colpisce in Singer è l'infallibilità dell'olfatto. «Dai bazar dei cortili giungevano odori di letame, di cipolle fritte, di fogna e del macello». Neanche Bruno Schulz ha un naso così affilato e ricettivo. e II mattatore incontrastato di questo piccolo ingannevole gioiello narrativo è lui, Yasha Mazur, il mago di Lublino. Ci sono personaggi che hanno tale presenza scenica da assumere in sé eroi che lo hanno preceduto e altri di là da venire. Se non considerassi la generalizzazione il nemico più insidioso di qualsiasi discorso letterario direi che Yasha incarna un archetiPo ingombrante: quello dell'ebreo sfrenato, sensuale e edonista cui Otto Weininger all'inizio del secolo scorso diede una turpe fama. E dire che Yasha viene da una famiglia onesta, di buona tradizione chassidica. Ma neppure questi natali rispettabili lo hanno difeso della sua passione: la magia. E dal suo temperamento smanioso e irregolare. Ora è un illusionista, un prestigiatore, un saltimbanco di prim'ordine, alle prese con un'esistenza irresistibilmente peccaminosa. Senza figli, Yasha ha una pia moglie ebrea cui badare, un numero sbalorditivo di amanti e un'idea che lo perseguita: mollare tutto e scappare inïtalia con Emilia, avvenente altolocata vedova, e la di lei figlia minorenne che Yasha già sogna di pervertire. Mollare tutto? Trovare riparo in Occidente? Convertirsi al cristianesimo? E perché? Cos'è che non va nella sua vita? Il fatto è che Yasha, il dinamico, funambolico, vitalista mago di Lublino è sempre a un passo dalla depressione. «Insieme alla sua ambizione e brama di vita, c'erano in lui una tristezza, una consapevolezza della vanità di ogni cosa, e di una colpa che non poteva né riparare né dimenticare. A che scopo vivere se non si sa perché si viene al mondo e perché si muore? (...). Appena smetteva di pensare a nuovi trucchi e a nuovi amori, i dubbi lo assalivano come uno sciame di locuste». Credente sui generis, irriguardoso verso la tradizione, insofferente alla legge mosaica, è assediato dal tarlo nichilista: una specie di spleen che lo porta a vagheggiare crimini inauditi, harem multietnici e un futuro felice e prospero, lontano dalla sua gente e dall'ira dei Penati. Non ce la farà. Tornerà indietro. «Devo diventare un ebreo!, si disse. Un ebreo come tutti gli altri». E per farlo, si chiuderà in casa consacrando la vita a una specie di ascetismo misticheggiante non meno velleitario, a guardar bene, dell'antica deboscia. Un romanzo a tesi, quindi? Una specie di conte philosophique? Un virtuoso itinerario di redenzione? Neanche per sogno. A Singer piaceva dire che i bambini erano i suoi lettori ideali. Avidi di «storie interessanti, non di commenti, non di guide alla lettura, non di note a piè di pagina», i bambini «non si aspettano che il loro scrittore preferito redima l'umanità». E in effetti l'esemplare vicenda di Yasha, sebbene così impregnata di penitente teologia ebraica, può essere capita anche da un bambino. Siamo alle solite. Non c'è modo di liberarsi dagli atavismi. Hai un bel dirti libero e secolarizzato, il richiamo dei geni è irresistibile. Yasha non può sbarazzarsi del giudaismo più di quanto il suo creatore possa sbarazzarsi dell'yiddish.

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