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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.01.2020 Daniel Liebeskind si racconta
Lo intervista Stefano Bucci

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 gennaio 2020
Pagina: 30
Autore: Stefano Bucci
Titolo: «Il mio grattacielo è curvo perché...»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 19/01/2020, a pag. 30, con il titolo "Il mio grattacielo è curvo perché...", l'intervista di Stefano Bucci a Daniel Liebeskind.

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Stefano Bucci


Daniel Liebeskind

In principio c'era il giovane Daniel che sognava di essere un musicista di professione e che, in quella Polonia dove era nato e cresciuto, all'improvviso decise di diventare architetto. «Suonavo la fisarmonica — racconta a "la Lettura" al 29° piano del cantiere per il suo Curvo, uno dei tre grattacieli per CityLife, in occasione delle riprese della serie Sky Arte Brunelleschi e le grandi cupole del mondo — . Ho vinto il premio America-Israel Cultural Foundation per la musica suonando quello strano strumento, scelto solo perché i miei genitori avevano paura di portare il pianoforte nel cortile del loro caseggiato di Lòdz, in Polonia, dove sono nato il 12 maggio 1946, e di attirare l'attenzione su di noi. Era un'epoca buia, l'epoca del comunismo che seguiva l'antisemitismo». Così Dora e Nachman Libeskind, i genitori di Daniel (due ebrei polacchi sopravvissuti all'Olocausto) «mi hanno comprato la fisarmonica, che altro non è che un pianoforte in una valigia, ma quando, a dodici anni, il maestro Isaac Stern mi ha detto chiaro e tondo che avevo esaurito tutte le possibilità della fisarmonica e che avrei dovuto passare al pianoforte, quello vero, ho capito che era il momento di passare all'architettura». E la musica? «L'architettura è ora la mia musica, una musica capace di inventare spazi che risuonino di tutti i suoni del mondo che ci circonda e di edifici dove fermarci, guardarci dentro, concentrarci, sentire le giuste vibrazioni». e In un podcast dello scorso settembre l'autore del Jüdisches Museum di Berlino e del progetto per il nuovo World Trade Center di New York, aveva raccontato con passione la Toccata e fuga in do minore di Bach ma oggi sul suo spartito ideale ci sono piuttosto Brunelleschi con la Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze e il Michelangelo della Pietà Rondanini.

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I grattacieli di CityLife a Milano


Perché Brunelleschi? «Con Brunelleschi l'architettura scopre la sua complessità, diventa consapevole del potere di cui può essere capace. Non è più soltanto forma, ma anche forza e l'immagine di una società. La curvatura del mio grattacielo è un frammento di quello di cui fu capace Brunelleschi.
E perché la «Pietà Rondanini»? «La forma, certo, conta molto. Ma la mia passione per Michelangelo passa per il mio infinito amore per il disegno. Lo stesso che fa scrivere a Michelangelo "Disegna Antonio, disegna Antonio. Disegna e non perder tempo" sul bozzetto per la sua Vergine con Bambino: un invito rivolto al suo allievo Antonio Mini, a cui ha chiesto di copiare quel bozzetto, a badare alla sostanza».
Un archistar del Terzo Millennio che parla di disegno a mano con la matita potrebbe addirittura sorprendere... «Ogni progetto nasce da un'idea, ma diventa realtà solo quando si disegna. Anzi: prima di tutto c'è il disegno. Ogni frammento del nostro pensiero, anche il più viscerale, fa parte di un più generale essere uomo e quando inizio a disegnare metto tutto quello che ho dentro di me. Il disegno è il simbolo di qualcosa di più grande, del nostro modo di essere uomini. Per questo porto sempre con me una matita: devo essere sempre pronto per disegnare, devo cogliere l'attimo».
Il disegno come qualcosa di divino... «Tutto è disegno, tutto quello che ci troviamo davanti può essere disegnato, persino lo smartphone, oppure può nascere da un disegno su un pezzo di carta o su un tovagliolo. Il disegno è qualcosa di divino, che non ha bisogno di tecnologie sofisticate o del computer, ma solo dell'ispirazione e della bellezza. Il disegno può mettere in scena con una matita la complessità dell'universo, il disegno è capace di sintetizzare quella stessa complessità su un pezzo di carta».
E il computer allora? «Ci serve per poter lavorare velocemente, per rispettare i tempi, ma senza il disegno a mano non ci può essere buona architettura. La qualità del disegno con il computer è interessante, utile, ma molto modesta rispetto a quello che possiamo disegnare con le mani. Il computer è molto utile, ma anche molto pericoloso, perché può farci disegnare senza usare la testa. Non possiamo progettare simulando la realtà con il programma di un pc, bisogna farlo pensando alla realtà».
Con un'altezza di 175 metri, una superficie complessiva di 33.500 metri quadrati e 34 piani, la Torre Libeskind soprannominata «D Curvo» affiancherà «D Diritto», la Torre di Arata Isozaki, e «Lo Storto», la Torre di Zaha Hadid. Che Milano sarà quella delle Tre Torri? «Non ho voluto fare qualcosa che entrasse in contrasto con il resto della città, non ho voluto entrare in competizione con gli altri progettisti che lavoravano sulla stessa area. Ho voluto creare un contatto reale con tutta Milano: ho guardato al futuro e progettato qualcosa che fosse realmente sostenibile, ecologico, future-oriented. Per tutti: perché il grattacielo dovrà servire anche a chi non ci vivrà...».
Davvero nessuna competizione con gli altri progettisti. «Sono edifici diversi, ma nemmeno poi tanto, solo all'apparenza. Ad unirli c'è qualcosa di molto profondo: l'idea di un'architettura che si apre alla città».
A che idea di città? «Nella mia architettura guardo sempre ai modelli eccellenti, a cominciare dagli antichi romani. E poi a Bramante e a Piranesi. Per Milano ho avuto in testa anche Leonardo, quello del progetto per il Tiburio del Duomo, purtroppo mai realizzato, un progetto che dimostra come la magnificenza del Duomo abbia sempre costituito uno stimolo potente e una sfida; non solo un'architettura, ma il tassello fondamentale di una città. In qualche modo ho voluto creare un dialogo immaginario tra il mio grattacielo e uno dei simboli, se non il simbolo, di Milano... (per chi volesse saperne di più del progetto di Leonardo, fino al 2 febbraio al Museo del Duomo è aperta la mostra Il Duomo al tempo di Leonardo, ndr)».
Esiste un modello universale di città? «No. New York è solo New York, Milano è solo Milano».
Qual è la dote fondamentale per essere un buon architetto? «Deve sorprendersi della meraviglia del mondo. Deve essere strabiliato da questa bellezza, da tutto quello che è successo dalle origini del mondo e non solo da un film o da un libro... E deve mettere amore in quello che fa».
Un grande sognatore allora... «Sono appena tornato da New York, dove sto progettando una casa per anziani: quello dell'architettura sociale per i più deboli è il futuro. Case, edifici, spazi per tutti, ma prima di tutto per chi ha bisogno. In quegli spazi, più che di sogni, c'è bisogno di realtà».
Nemmeno Libeskind sogna? «Certo. Ma non sono un sognatore, resto un architetto. Quello che inseguo con i miei progetti è un nuovo senso della vita per le città. E un nuovo orgoglio. Anche se l'architetto non può fare tutto: la politica ha obblighi da assolvere».
Che cosa c'è dietro l'architettura? «II simbolo. Il mio grattacielo per CityLife non sarà solo un edificio leggermente inclinato in avanti che si ispira alle linee della Pietà Rondanini o alla Cupola di Brunelleschi; ma con quel suo inarcamento vuole rappresentare un senso di protezione da trasmettere all'intera città, proprio come la Cupola nei confronti della Firenze del Rinascimento. Perché Brunelleschi non pensava soltanto a un'architettura, ma guardava a un'idea generale di città, un'idea molto moderna dello spazio urbano, considerato come una collettività. La società vive di quegli spazi comuni: sono la sua anima».
Lei parla del Rinascimento: vale ancora l'idea di arte universale? «Assolutamente sì. L'architettura, come tutte le forme d'arte, come la musica o la danza, come la pittura o la scrittura, è in fondo anche una forma di memoria, che racconta la storia dell'uomo. Per questo quando si discute se un edificio è bello o brutto non è mai soltanto una questione estetica: ognuno mette in quella stessa discussione, anche se magari non sa esprimerla come dovrebbe, una parte della propria storia più profonda. L'architettura non è tabula rasa, non è solo un esercizio di geometria».
Quella avviata da CityLife sembra una divina competizione per Milano. A cominciare dai modelli scelti... «La società, con i suoi problemi, provoca l'architettura e l'architettura deve risolvere quei problemi. Per questo, ripeto, l'architettura urbana non è ormai più solo una questione di tecnica edilizia, ma presuppone una sorta di ritrovato orgoglio cittadino, in questo caso molto milanese. Un orgoglio che non manca alla città, ma Milano ne merita ancora di più».

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