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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.09.2019 I successi di Israele sono anche merito di Netanyahu, mentre sotto la dittatura dell'Anp non si vota
Commento di Aldo Cazzullo

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 settembre 2019
Pagina: 1
Autore: Aldo Cazzullo
Titolo: «Il lungo declino di un capo - Calo di consensi per Abu Mazen»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/09/2019 a pag.1-14, con il titolo "Il lungo declino di un capo", il commento di Aldo Cazzullo; da pag. 15, la breve "Calo di consensi per Abu Mazen".

La descrizione che Aldo Cazzullo fa di Israele è di un Paese vibrante di energia, unica democrazia del Medio Oriente che - come tutte le democrazie - non è privo di problemi. Severo invece il suo giudizio sul premier Benjamin Netanyahu, che dei successi recenti di Israele è uno degli artefici. Cazzullo è un giornalista in genere libero da pregiudizi 'politicamente corretti', su Netanyhau invece si allinea alle critiche dominanti. Peccato.

A seguire la breve che spiega il calo di consensi per Abu Mazen nei territori contesi. Gli arabi palestinesi, a differenza degli israeliani, non vivono in una democrazia e non possono quindi votare: una differenza che è giusto sottolineare.

Ecco gli articoli:

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Benjamin Netanyahu

Aldo Cazzullo: "Il lungo declino di un capo"

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Aldo Cazzullo

«Siede con voi in cabina di pilotaggio il popolo di Israele. Generazioni di ebrei vi guardano e si attendono che ognuno di voi faccia il proprio dovere». Le parole con cui il maggiore Yosef Salat, comandante della prima squadriglia spedita al Cairo a bombardare l’aviazione egiziana all’alba della guerra dei Sei Giorni, sono una delle citazioni ricorrenti nel discorso pubblico di Bibi Netanyahu. La sua famiglia del resto non ha mai superato il lutto per la morte di Yoni, suo fratello, capo del commando che liberò gli ostaggi di Entebbe. La storia e il futuro di Israele, nella visione del suo leader più longevo, si può concentrare in questa idea: l’eccezionalità dello «Stato degli ebrei», per usare l’espressione a lui cara. E a fiaccarlo senza riuscire a sconfiggerlo — nelle elezioni dell’altro ieri come in quelle dello scorso aprile — non è stata la sinistra, ridotta ai minimi termini: è stato un generale, Benny Gantz. Il quale offre ai compatrioti la promessa forse più impossibile per un aspirante premier di Israele: la normalità. «Forse, ma solo forse, l’era di Netanyahu è arrivata alla fine», titola il sito del quotidiano Haaretz . Infatti è presto per dire come finirà, chi riuscirà a formare un governo (a Bibi mancano cinque seggi). L’unica vera democrazia del Medio Oriente è più che mai frammentata tra partitini e leaderini che tra loro si detestano: non solo Avigdor Lieberman, capo dei russi di Israele, rifiuta di allearsi con Netanyahu; Ayelet Shaked, l’ex ministra della Giustizia che guida il partito dei coloni, ha sostenuto alla vigilia che il piano di Trump prevede la divisione di Gerusalemme, cosa che non risulta da nessuna parte; se è per questo, lo specialista della sorpresa dell’ultima ora è proprio Bibi, che stavolta ha annunciato in caso di vittoria l’annessione di un terzo della Cisgiordania. Una cosa si può dire con certezza: Israele non può stare né con Netanyahu, né senza. metà Paese non vorrebbe più il vecchio leader, che a dicembre sarà incriminato per corruzione; ma l’altra metà si sente ancora rassicurata da lui. Israele non è isolato; gli americani hanno portato l’ambasciata a Gerusalemme, i russi attestati a Damasco non sono ostili, Xi Jinping si mostra amico: perché cambiare? Tutta la politica di Netanyahu si fonda sull’alternanza tra la paura e la forza. Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che prepara l’atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a Sud, Hezbollah a Nord, il regime di Assad a Est. Ma Israele non è mai stata così sicura da quando il premier dialoga con i satrapi del Medio Oriente, da Al Sissi ai sauditi, e stringe accordi con i potenti del mondo. Va detto però che la strategia e anche il linguaggio di Netanyahu, veicolato sui social dal figlio Yair, non ha solo diviso; ha polarizzato la società. Ha sdoganato un linguaggio aggressivo che non ha molto di eroico. Ha fatto leva sulla diffidenza nei confronti degli arabi, compresi quelli di nazionalità israeliana. Bibi è stato il primo leader nella storia del Paese a non cercare la pace. Fu il suo predecessore del Likud, Menachem Begin, a fare la pace con l’Egitto di Sadat. Ma la prima volta in cui è stato eletto, nel remoto 1996, lui fece di tutto per non applicare gli accordi di Oslo, il cui fallimento ha travolto la sinistra laburista fondatrice dello Stato. Alla vigilia delle elezioni del 2015 rovesciò i sondaggi negativi proclamando che con il suo governo non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Nell’aprile scorso sopravvisse a uno scandalo che avrebbe azzoppato chiunque, fatto di dettagli boccacceschi — la fornitura vitalizia di champagne alla first lady Sara, solo Dom Pérignon rosé, e i sigari per lui, rigorosamente Cohiba Siglo V, i preferiti di Castro — e di un’accusa sostanziale: aver trattato con alcuni editori leggi di favore in cambio di appoggio. A dire il vero la stampa israeliana è spesso stata molto critica; e se si applicassero sempre questi criteri — come ha detto al Corriere il fratello Iddo Netanyahu — metà dei politici mondiali sarebbero in galera. Resta il fatto che Bibi per la seconda volta in un anno ha quasi vinto le elezioni; quindi non le ha vinte. E oggi non può dire che il meglio deve ancora arrivare. Tre ore dopo il discorso del maggiore Salat, in quel lontano estate del 1967, l’aviazione egiziana non esisteva più. Emigrati in America con il padre, i tre fratelli Netanyahu scelsero di tornare per il servizio militare, tutti e tre nella stessa unità di élite. Prima di attaccare i terroristi a Entebbe, dopo quattromila chilometri di volo radente per sfuggire ai radar, Yoni disse solo: «Ricordatevi che siete soldati migliori di loro». Suo fratello Bibi ha tentato di trasformare quell’energia in una tensione permanente, emotiva più che morale, quasi nevrotica, da cui Israele — certo non solo per colpa sua — non si è liberata neppure questo 17 settembre. Con una costante, pur nella divisione: alla pace con i palestinesi, mai così isolati e negletti, ormai non crede più quasi nessuno. Lo schema «due popoli due Stati» è lettera morta. Gerusalemme, la città delle tre religioni, la capitale contesa, è oggi una meta turistica dove ogni mese apre un ristorante fusion, mentre a mezz’ora di auto nei Territori occupati si vive con il mitra in mano. Perché in Israele, a lungo andare, persino l’eccezionalità diventa normale.

"Calo di consensi per Abu Mazen"

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Abu Mazen

Il 67% dei palestinesi chiede le dimissioni di Abu Mazen. È quanto emerge a un sondaggio del centro palestinese per la ricerca sulle politiche e le indagini. Di questi il 64% vive in Cisgiordania, mentre l’80% vive nella Striscia di Gaza. Al suo posto, il 35% degli intervistati vorrebbe Marwan Barghouti, l’ex capo delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, in galera con diversi ergastoli dal 2002.

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