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Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.09.2019 Lorenzo Cremonesi intervista Tom Segev,
Ma di domande non ne imbrocca una

Testata: Corriere della Sera
Data: 15 settembre 2019
Pagina: 61
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «David Ben Gurion, nostalgia di un padre»
Riprendiamo da LETTURA/CORRIERE della SERA di oggi, 15/09/2019, a pag.61 con il titolo "David Ben Gurion, nostalgia di un padre" l'intervista di Lorenzo Cremonesi allo storico Israeliano Tom Segev


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                                                        Tom Segev

Lorenzo Cremonesi si troverebbe più a suo agio a Repubblica, purtroppo per lui il quotidiano della famiglia De Benedetti ne è già saturo, gli conviene rimanere dov'è. Può sempre sfogarsi con le domande - come avviene con Tom Segev- che però gli risponde per le rime. E dire che Tom Segev è un intellò israeliano con solide radici laburiste, uno storico che si riconferma attendibile. Non abbiamo ancora letto il libro, ci auguriamo che esprima una analisi storica coerente con le risposte date a Cremonesi.
Due parole sul titolo: Israele è un paese talmente proiettato nel futuro da non avere mai 'ideologizzato' la propria storia nazionale. La si studia, come è doveroso che sia, ma la parola' nostalgia' è la meno citata. E'adatta a Cremonesi, che ha una sua verità da anteporre, l'inverso di quanto dovrebbe fare un buon giornalista.

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Lorenzo Cremonesi

Ecco l'articolo:

Aveva 82 anni David Ben Gurion nel 1968, quando l'allora ventitreenne Tom Segev andò a intervistarlo per il giornale degli studenti dell'Università ebraica di Gerusalemme. Fu un lungo viaggio che sfiorava i territori della Cisgiordania conquistati dall'esercito israeliano nella guerra dei Sei Giorni, appena un anno prima. Giù, verso sud, passando per Beersheva, percorse stradine accidentate che oggi sono diventate scorrevoli autostrade a quattro corsie. E poi ancora più avanti, nel cuore del deserto del Negev, con le carcasse ancora visibili dei mezzi egiziani distrutti nei combattimenti del 1948-49. Testimoniavano il conflitto che aveva incoronato Ben Gurion, «padre fondatore», addirittura «profeta», «messia» vincente del nuovo Israele. Raggiunse Sde Boker, il  kibbutz dove Ben Gurion si era ritirato più volte, anche durante i mandati da primo ministro e dove avrebbe trascorso gli ultimi giorni gran parte in solitudine, a indicare la sua concezione del sionismo attivo, costruttore, capace di «trasformare il deserto in giardino». «Fu un colloquio per molti versi strabiliante. Credevo — dice Segev — che avrei incontrato uno statista in pensione, pronto a fare il bilancio della sua vita. Mi ritrovai faccia a faccia con l'essenza stessa della storia ebraica moderna e contemporanea. Ricordo che, pur con la sua celebre criniera di capelli bianchi, Ben Gurion appariva gracile, più minuto di quanto pensassi. Ma i suoi occhi guizzavano intensi, a tratti quasi assenti in pensieri distanti, e subito dopo inquisitori, attenti. Chiese a me, giovane universitario inesperto, che cosa ritenevo avremmo dovuto fare dei territori appena conquistati agli arabi. Faceva domande prima di rispondere, voleva conoscere l'interlocutore. Aggiunse che dovevamo rendere i territori occupati in cambio di accordi di pace: era contrario alla presenza di troppi palestinesi in Israele. Si lasciò andare a confessioni personalissime, persino imbarazzanti. "Una volta dissi a mia moglie Paula che avrei voluto un secondo figlio maschio. Ma era contraria". Fu uno dei tanti accenni a Paula, morta solo pochi mesi prima». e Ben Gurion raccontò a Segev della sua infanzia a Plonsk, in Polonia, del suo arrivo da pioniere idealista in Galilea nel 1906. «"Già a tre anni sapevo che non sarei morto a Plonsk. Io e i miei compagni nella piccola scuola della comunità ebraica eravamo tutti sionisti", mi disse. A tre anni? Sembrava impossibile. Ma poi mi resi conto quanto il nazionalismo ebraico fosse l'essenza della sua esistenza. Sino alla morte, cinque anni dopo il nostro incontro, Ben Gurion è stato un sionista convinto, assolutamente assorbito dalla sua missione, pronto a sacrificare tutto e tutti, compresi affetti, familiari, amici e amori, per realizzarla. Senza questa premessa sarebbe difficile capirlo». Fu in quell'occasione che iniziò la lunga incubazione di A State at Any Cost. The Life of David Ben-Gurion («Uno Stato a qualsiasi prezzo. Vita di David Ben Gurion»), la biografia del «grande vecchio», come lo chiamano ancora gli israeliani più anziani, appena tradotta in inglese, che conferma Tom Segev come uno tra i più importanti studiosi della storia di Israele. In questi 51 anni, lui è stato giornalista di punta per il quotidiano «Ha'aretz», commentatore noto nel mondo, ha scritto opere fondamentali, che spaziano dal periodo del Mandato britannico alla guerra del 1967, all'Olocausto e alla sua strumentalizzazione da parte della politica israeliana e araba, toccando aspetti estremamente controversi della questione palestinese. E evidente, leggendo quest'ultimo libro, che si tratta del risultato molto elaborato di letture, riflessioni e percorsi intellettuali legati intimamente alla vita del suo autore.
Tom Segev, prima di tutto un parallelo tra Ben Gudon e Benjamin Netanyahu, alla vigilia delle elezioni parlamentari del 17 settembre. Lo scorso 20 luglio Bibi ha superato la soglia dei 4.876 giorni da premier, battendo 113 annidi Ben Gurion nei periodi 1948-54 e 1955-63. È il primo ministro più longevo della storiadel Paese. Quali sono le differenze tra i due leader?
«Enormi. Ben Gurion ha costruito lo Stato dal nulla, compresi i meccanismi moderni del suo funzionamento: l'esercito, la politica estera, l'economia. Minacciava costantemente di dimettersi se non fosse stato ascoltato. Al contrario, Bibi è nato nel 1949, quando il sessantatreenne Ben Gurion era già premier e capo carismatico. È un gestore di ciò che i padri fondatori hanno creato. E si rivela attaccato al potere a costo di umiliazioni vergognose, accusato di corruzione e irregolarità gravissime. Non a caso negli ultimi tempi la figura di Ben Gurion viene evocata di continuo da commentatori e mass media. C'è nostalgia per la sua pulizia morale, per il suo stile di vita spartano, quasi ascetico, rispetto a quello di Bibi. Anche se Ben Gurion non mancava di contraddizioni profonde nella vita personale. Per esempio le numerose amanti, benché predicasse il puritanesimo della famiglia sionista completamente dedita all'epopea nazionale; oppure le spese incontrollate, con i fondi pubblici, per soddisfare la sua passione di bibliofilo impenitente. Soprattutto, si cercano leader che, come lui, non si limitino a sopravvivere, ma abbiano una chiara visione del futuro e sappiano pianificare politiche di lungo periodo. Ben Gurion già nel 1919-2o ebbe intuizioni e progetti che seppe portare avanti con coerenza, nonostante inflnite avversità e talvolta in totale solitudine, sino alla loro realizzazione con la nascita dello Stato nel 1948 e oltre».
E le similitudini?
«Bibi ha accolto due massime fondamentali dalle politiche di Ben Gurion nei confronti dei palestinesi tutt'ora valide. La prima, improntata a un realistico pessimismo di fondo, fa ritenere che la questione palestinese possa essere amministrata, governata, ma non sia possibile alcuna soluzione definitiva. E ciò conduce alla seconda, per cui lo Stato di Israele deve a tutti i costi evitare di avere troppi cittadini non ebrei all'interno dei suoi confini. Ben Gurion sin dai tempi della guerra d'indipendenza fu contrario ad annettere la città vecchia di Gerusalemme e i quartieri arabi, come del resto si oppose alla conquista della Cisgiordania, anche se i militari gli dicevano di poterlo fare molto rapidamente nei primi mesi del 1949. Nel 1956, sotto la spinta della cooperazione franco-britannica contro Nasser per la crisi di Suez, si lasciò indurre a invadere sia il Sinai sia Gaza. Ma poi fu ben contento di ritirarsi sotto la pressione congiunta di Usa e Urss. Bibi oggi, pur figlio del sionismo revisionista, sta bene attento a non annettere i palestinesi».
Però annuncia che, se rieletto, annetterà la valle del Giordano e le colonie ebraiche in Cisgiordania
. «Non c'è nulla di nuovo. Si tratta di progetti vecchi, condivisi anche da buona parte della sinistra laburista e da tempo, ormai. Bibi non intende annettere Gaza e tre milioni di palestinesi della Cisgiordania, come invece vorrebbe la destra religiosa e fondamentalista, che pure fa parte della sua coalizione di governo».
Gli arabi accusarono spesso Ben Gurion di essere razzista. Lo fu?
«No. Assolutamente no. Non considerava gli ebrei superiori. Anzi, temeva il nazionalismo arabo e le sue capacità militari, tanto da ritenere che potessero prevalere. Queste convinzioni le maturò in modo molto freddo e razionale già tre anni dopo l'arrivo in Palestina. Accadde nel 1909 nella comune agricola di Sejera, in Galilea, quando un gruppo di arabi uccise due suoi giovani compagni. Subito dopo scrisse una lettera al padre a Plonsk in cui sosteneva che non fosse possibile alcun compromesso: era necessario che i lavoratori ebrei sostituissero gli arabi, perché i due movimenti nazionali aspiravano alla stessa terra. L'unico modo per gli ebrei era convincere gli arabi che non potevano distruggerli. È una logica che lo ha via via condotto a potenziare le nostre forze militari, a trovare un accordo con la Germania solo a pochi anni dalla Shoah per ottenere armi e fondi per il nostro esercito, e a costruire la bomba atomica».
Però fu ben contento di espellere gli arabi nella guerra d'indipendenza.
«Sii, per lui era evidente che dovevano essere espulsi. E soprattutto che i profughi una volta fuggiti o scacciati non avrebbero più potuto tornare alle loro case e alle loro terre. Perciò fu contrario a invadere la Cisgiordania e Gaza nel 1967, quando non aveva ormai più compiti di governo. Prevedeva giustamente che poi ci saremmo trovati con una massiccia popolazione araba in casa. La sua accettazione dei progetti di partizione della Palestina si basava sull'assunto per cui fosse meglio uno Stato piccolo nettamente ebraico di uno grande binazionale».
Ma nel libro lei racconta che Ben Gurion suggeri perfino di abbattere le mura della Città Vecchia di Gerusalemme per annetterla.
«Si, come del resto dopo la guerra dei Sei Giorni affermò perfino che le alture del Golan, strappate alla Siria, non fossero negoziabili. Questo fa parte delle contraddizioni del personaggio, anche se, va ricordato, siamo ormai nel periodo della sua vecchiaia».
Quanto pesò l'Olocausto?
«Enormemente. Nella sua visione sionistocentrica il crimine più grave di Hitler fu che sterminò i cittadini del  futuro Israele. Ben Gurion ebbe presto consapevolezza della dimensione dei massacri degli ebrei, già poco dopo l'invasione tedesca della Polonia. Ma avvertì il peso della sua impotenza. Non poteva farci nulla. Occorreva prima che gli Alleati sconfiggessero i nazisti, quindi lui si concentrò a organizzare il futuro del Paese per accogliere i sopravvissuti. Il dramma fu che nel 1945 quasi tutti erano morti. Così si adattò a far venire gli ebrei dei Paesi arabi. Ma erano "materiale umano", come si diceva allora, assolutamente diverso dagli ebrei europei. Da una parte c'erano i pochi disperati usciti dai campi di sterminio e dall'altra i sefarditi poveri, privi di cultura, senza alcuna familiarità con il funzionamento di una moderna democrazia occidentale. Ebbe il grande merito di continuare a reinventarsi, di adattarsi. Non a caso venne paragonato a Lenin per il pugno di ferro con cui controllava il governo e il partito laburista, per i suoi modi sovente brutali. Ma anche al Churchill della guerra, per il dinamismo che seppe imporre al Paese nei momenti più bui»

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