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Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.08.2019 Solo domande 'politicamente corrette'
Davide Frattini intervista Mazen Maarouf

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 agosto 2019
Pagina: 24
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Intervista a Mazen Maarouf: ho portato Beirut quassù in Islanda»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA/LETTURA, a pag.24, con il titolo "Intervista a Mazen Maarouf: ho portato Beirut quassù in Islanda" l'intervista di Davide Frattini


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Mazen Maarouf

Bouamel Sansal, scrittore algerino, ha scritto " basta pronunciare il nome 'islam' perchè qualunque discussione si blocchi o si indirizzi versoi  luoghi comuni del 'politicamente corretto' ". E' la regola seguita da Davide Frattini.
Non è che le domande poste non siano interessanti, tutt'altro, ma colpiscono le omissioni. Ad esempio, chiedere se Maarouf non si è mai domandato perchè i rifugiati in Libano non hanno mai ottenuto i diritti civili. Altra domanda, per quale motivo la sua famiglia ha preso la decisione di abbandonare tutto e fuggire in Libano, quando i palestinesi che sono rimasti in Israele godono di tutti i diritti, civili e umani. Ce ne sarebbero altre, eppure Frattini ha ritenuto di non fargliele. Perchè?

Ecco l'articolo


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Davide Frattini



A Reykjavik chiunque può sentirsi Gesù e «camminare sulle acque ghiacciate del lago»; una celebrità «perché tutti lo sono e nessuno lo è»; al sicuro, «visto che anche la polizia gira disarmata». Quando Mazen Maarouf è arrivato in Islanda nel 2011, in fuga dalle minacce per le sue critiche al regime siriano di Bashar Assad, era novembre e faceva già freddo. A sopraffarlo non è stato il gelo così estraneo per lui che atterrava da Beirut: «La calma, la pace, i passanti rilassati. La serenità ti apre ad altre possibilità, altri modi di vivere. In Medio Oriente le tensioni continuano a esasperarsi. Sono nato da rifugiato palestinese in Libano ed ero convinto di morire da rifugiato palestinese in Libano. Gli islandesi hanno lavorato e lottato per costruire questo tipo di società dove tutti godono il più alto livello possibile di diritti umani, senza discriminazioni».
Nessuna disparità anche nel pubblicare un libro. «Un idraulico di 75 anni è venuto a casa mia a sistemare il lavandino. Mi sono presentato come uno scrittore e lui mi ha messo in mano una copia del suo libro. Qui è normale che un divo incontri una persona "non famosa" e gli dica: "Ho letto un articolo su di te". Non c'è bisogno di essere un artista o un politico per essere riconosciuti: importante è considerato chi pulisce, prepara il cibo, lavora perla comunità. Chi permette alla nazione di andare avanti in un certo modo». Nel primo racconto, Barzellette per miliziani, che dà il titolo a una raccolta in uscita per Sellerio, il protagonista è convinto che sia un occhio di vetro a garantire di essere «riconosciuti» e quindi lasciati in pace dai capibastone delle milizie. Sopravvivere al conflitto è un percorso a ostacoli, va da casa alla lavanderia: il padre crede che la strategia migliore sia rendersi quasi invisibili, il figlio immagina che quello sguardo vitreo tenga lontani i guai armati. «Mio padre e mia madre non hanno mai designato qualcuno come "il nemico", soprattutto gruppi, un intero popolo o uno Stato. Nominavano Ariel Sharon, il generale israeliano che aveva invaso il Libano, era inevitabile, tutti ne parlavano. Per il resto cercavano di restarne fuori, forse anche per paura»
L'occhio di vetro è fisso su due modi diversi di concepire la dignità.
«I nostri genitori ci spingevano ad andare bene a scuola, a cercare di essere più intelligenti degli altri. Era il loro tentativo di insegnarci la dignità. Ovviamente i bambini attorno a me non la vedevano allo stesso modo: ero discriminato e bullizzato. Preso in giro per il mio accento ("non parli come un libanese") e per le mie origini ("non sei un libanese"). Non ci sono semplici cittadini in quella città, per sentirsi protetti tutti appartengono a qualche squadra: sciita, sunnita, cristiano-maronita, le organizzazioni palestinesi»
.Nel libro il «nemico» non viene identificato, solo in un racconto un  carrarmato è definito «israeliano».
«Ho cercato di rendere l'ambientazione anonima: i luoghi, i nomi e le caratteristiche delle persone, il periodo storico. Volevo evidenziare che in una guerra tutti soffriamo allo stesso modo. Come sono uguali le cicatrici psicologiche, quando finisce: la società resta bloccata, la paura si è infiltrata nelle famiglie, tra i padri, le madri, i figli. Ci vogliono anni per superare il trauma e non è detto che ci si riesca».
II libro ha una sua vita a Beirut, mentre lei abita seimila chilometri più a nord.
«I palestinesi vivono in Libano come rifugiati dal '48 e ancora non sono garantiti loro i diritti civili di base. Non mi sono mai sentito un cittadino in Libano, non mi sono mai sentito un essere umano. Il mio libro è stato tradotto in numerose lingue e quando nelle interviste dichiaro di essere "palestinese islandese" ricevo messaggi dal Libano in cui mi dicono: "Hai vissuto qui, sei un palestinese libanese". Ho vissuto lì, sono pieno di ricordi, amo Beirut che non è mai stata la mia città. I libanesi hanno sempre ripetuto: per voi è temporaneo, dovete tornare in Palestina. C'è una contraddizione però: come potete pretendere da noi che lottiamo per la causa se ci disumanate, se non ci fate sentire forti e orgogliosi». Samir El Youssef, scrittore pure lui cresciuto a Beirut, ha detto: «Leggo gli altri autori palestinesi e non trovo mai un gay, un tossico o uno anche solo felice. Eppure ne conosco tanti nel mio campo profughi».
«La felicità è relativa, ritengo più importanti le esperienze significative. Nei campi i palestinesi continuano a riprodursi, a festeggiare i matrimoni, ad andare avanti cogliendo gli attimi di gioia altrimenti sarebbero già morti: la tristezza mangia dentro, la disperazione consuma. Non penso che le mie storie siano felici, volevo essere onesto, ricreare un certo umore della memoria».
L'umore più diffuso sembra essere la vergogna.
«La guerra riguarda sempre i maschi e questa lotta patriarcale tra i capi che si sentono potenti. Tutti cercano di intimorirti e sminuirti. In questa situazione di tensione costante nessuno vuole essere il più debole, però è consapevole di non essere il più forte: così se la prenderà con qualcuno un poco più fragile. Anche i bambini obbediscono alle regole di questo gioco: da piccolo ero minuscolo, quelli della mia età erano tutti più grossi, con più privilegi e pieni di pregiudizi contro i palestinesi. La vergogna è sempre stata con me».
Il tono dei racconti è grottesco, non vengono affrontate questioni politiche in modo diretto.
«Tutt'ora non sono in grado di dire che cosa sia successo veramente in Libano, le cause dei 15 annidi guerra civile sono troppo complicate per infilarle nelle mie storie. Queste avventure bizzarre riflettono quanto gli individui escano danneggiati da un conflitto, come i loro mondi risultino distorti: finiscono a vivere in una realtà diversa, ognuno ha le sue fantasie e ci si aggrappa».
Lei ha cominciato a usare il computer dopo aver perso un taccuino con 27 poesie appena finite.
«Quando scriviamo al pc, rinunciamo alla possibilità di vedere l'evoluzione del testo: batti sui tasti, cancelli e quello che scompare non lo ritrovi più il giorno dopo. Sul foglio di carta ero in grado di scoprire il meccanismo della mia scrittura, le parti depennate con una riga restano lì mentre continui a lavorare, possono sempre essere recuperate, magari sono meglio di quelle rimaste. Adesso che l'ho capito mi sono messo a salvare in un altro documento le frasi cancellate, anche se non è la stessa cosa, non è tanto organico e corporeo quanto rileggere tutto il processo su una stessa pagina»

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