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Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.05.2019 Lo chef israeliano Eyal Shani: 'Ecco la cucina delle idee'
Commento di Davide Frattini

Testata: Corriere della Sera
Data: 15 maggio 2019
Pagina: 15
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Eyal Shani»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - Cook di oggi 15/05/2019, a pag.15 con il titolo "Eyal Shani" il commento di Davide Frattini.

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Eyal Shani

I quattro gatti gli insegnano che «la frenesia va infiacchita sul divano». Le ore spese a regolare la messa a fuoco della vecchia Linhof che «la fretta è nemica della meditazione». Le tre testuggini che «il cibo dura un istante, questi rettili campano duecento anni». L'appuntamento settimanale con sua figlia — per raccontare e ascoltare — che «l'ingrediente di ogni ricetta è una bella storia». Quella preferita da Anna comincia così: «A ?8 anni sono stato arruolato nella Marina, servizio militare obbligatorio, imbarcato su una cannoniera. A un mese dal congedo spariamo un missile che va fuori rotta ed esplode a dieci metri dalla nave, sono quello più vicino, mi fracassa i :impani. I medici mi vogliono rimandare a casa, io rispondo che preferisco rimanere, mi mettano in cucina. Non ne sapevo niente, mi piaceva la posizione della cambusa: in basso, quasi 3 livello dell'acqua, passavo le giornate a guardare il mare. I commilitoni sono stati i miei primi clienti, molto poco soddisfatti: quel che portavo in mensa volava fuori dagli oblò. Nessuno mi aveva mai spiegato come cucinare, non avevo libri di ricette, l'unica ispirazione veniva dai colori che vedevo: l'ocra e i marroni del Sinai che cala nel Mar Rosso. Ho pensato al caramello, a qualcosa di bruciacchiato come quelle montagne desertiche. Le dispense delle forze armate israeliane sono ricolme di caffé istantaneo e pollo congelato, allora parte della dieta nazionale. Così ho inventato il mio pollo al caffé: le sfumature erano eccezionali, tra il bronzo e il dorato. Purtroppo della sabbia il piatto ha preso anche la consistenza, i grani scricchiolavano sotto i denti. Fuori dagli oblò». Sono passati quarant'anni ed Eyal Shani ha imparato a cucinare fino a diventare uno degli chef più celebrati a Tel Aviv, il marchio da esportazione della nuova cucina israeliana con ristoranti aperti a New York, Parigi, Vienna, Melbourne (più l'onore da contraffazione globale: i cinesi hanno copiato lo stile e il menu di un suo locale, la causa giudiziaria è in corso). La rivista Food e Wine ha eletto il suo cavolfiore arrostito tra i migliori 4o piatti del 2018. lui assicura di aver creato «il primo sashimi di pesce al mondo e quello di pomodori che tutti hanno imitato». Eppure è il pollo al caffé a mantenere il record di longevità gastronomica e a trasformare il racconto preferito dalla figlia quasi in una favola: «Quattro anni fa stavamo girando l'edizione locale di MasterChef e uno dei concorrenti mi ha detto di essere cuoco nella Marina. Ancora prepara quel piatto, è diventato un classico delle cannoniere, non sapeva l'avessi ideato io. Un mese dopo gli ufficiali mi hanno telefonato dallo Stato Maggiore e mi hanno chiesto di cucinarlo sulla nave dove avrebbero celebrato il cambio di ammiraglio. Adesso ho una conoscenza dettagliata di come ottenere il meglio dal forno e ho usato il caffè italiano macinato fine. E stata un'esperienza fantastica: ho chiuso il cerchio». Shani è cresciuto a Gerusalemme, la famiglia della madre vi risiedeva da nove generazioni, il padre immigrato dalla Moldavia. «Mio nonno ha avuto un'infanzia poverissima nella Città Vecchia. L'organizzazione francese Alliance Israelite Universelle gli ha dato l'opportunità di studiare botanica alla Sorbona di Parigi, in cambio ha dovuto servire la République nell'esercito e l'hanno mandato in Africa meridionale. Ci è rimasto trent'anni, a lavorare in mezzo ai cannibali e a insegnare l'agricoltura. È tornato in Israele con queste piante esotiche: l'avocado, la papaya, il frutto della passione. Era lui a preoccuparsi dei miei pasti: completamente vegano — per forza dopo quel lungo periodo passato con i cannibali — mi costringeva a mangiare tutto crudo. Se piangevo perché volevo un dolce, preparava una strana mistura e la rosolava sul tetto con il calore del sole. Il primo sapore che ricordo è vagamente affumicato: cemento, catrame e raggi di sole. Mi ha però reso molto puro nel modo di trattare le materie prime». In quell'epoca — in un Paese nato da poco, preoccupato a irrobustire i suoi giovani, non a renderli satolli di manicaretti — la cucina israeliana è austera e poco creativa quanto il menu nella mensa collettiva di un kibbutz. E lo è ancora nel 1989 quando Eyal Shani apre a Gerusalemme il suo primo ristorante «Oceanus». «Tutti mangiavano a casa, i ristoranti erano pochissimi. Avevo carta bianca, nessuno poteva immaginare che un giorno sarebbe esistita una cucina israeliana. I segreti di quella araba erano custoditi dalle donne, che non potevano aprire i locali, mentre gli uomini sapevano preparare solo kebab, hummus, spiedini di pollo, quello che mangiavi per strada. Ho deciso di diventare chef: 24 coperti, un giglio bianco per ogni tavolo e un solo piatto che sapessi cucinare, per di più a base di pesce in una città lontano dal mare. Avevo imparato a preparare la bouillabaisse dai libri di Julia Child, la mia fidanzata diceva che era buonissima. Per il resto poco altro: sceglievo le foglie di lattuga migliori per l'insalata, ero in grado di cuocere i calamari e i gamberi alla griglia. Ho scoperto come offrire il pane grazie a una vicina di casa ebrea originaria dei Paesi arabi: un giorno ha preso una pita, ha messo sopra olio d'oliva, rosmarino, sale e l'ha riscaldata. «Si chiama focaccia», disse. Mi ha aperto la mente, ma la consistenza restava troppo gommosa. Ho chiesto a un arabo di insegnarmi a sfornare la mia. Dopo due anni Israele era invaso dalla focaccia». Dopo due anni «Oceanus» è un successo. Haim Shapiro, uno dei primi critici culinari, scrive che è il miglior ristorante nel Paese. «Troppo da gestire. Sono G in cucina e non so che cosa fare. Spesso scappo via dal servizio, vado sulle montagne, raccolgo erbe e fiori. Ho deciso di servirli con la mia focaccia, ricoperti di olio. Sono stato onesto, ho avvertito i clienti che avrebbero potuto essere velenosi. Qualcuno è finito all'ospedale con fortissimi dolori allo stomaco, non hanno smesso di venire». A questo punto è Eyal ad aver bisogno di una pausa. Chiude il ristorante e parte per l'Italia dove assaggia il suo primo carpaccio di carne, da Arrigo Cipriani a Venezia. «Il giorno dopo mi sono spostato a Roma e sono andato da "La Rosetta", G provo il pesce crudo, tagliato a fette messe una sopra l'altra, con arancia spremuta fresca. Mi chiedo: perché non lo presentano come il carpaccio, perché impignarle così? Sarei dovuto restare un mese in Italia, invece ho comprato subito il biglietto di ritorno, sono arrivato nella mia cucina, ho tagliato il pesce e ho usato il succo di limone al posto dell'arancia: ecco inventato il carpaccio di pesce. In quel momento ho capito che ero in grado di innovare e da quel giorno scrivo i miei menu senza che nessuno mi abbia mai insegnato a cucinare. Anche il sashimi di pomodori è nato così: non sapevo preparare niente, passavo il tempo a pelarli in attesa dell'ispirazione. Mi sono ritrovato in mano quello che poteva sembrare un pezzo di carne spolpata e mi sono detto: «Allora può diventare un carpaccio, un ragù, un sashimi». Lo facevo pagare 148 shekels, più o meno il valore di 600 oggi (quasi 150 euro). La gente pensava fossi pazzo, eppure lo ordinava. Ho capito che il prezzo non dipendeva dagli ingredienti, ma dall'idea che ci mettevo dentro». L'improvvisazione e il tocco di megalomania incidono sui conti di «Oceanus». «Ero fuori di testa. Convinto che Dio mi avesse scelto per creare la cucina israeliana. Ero capriccioso e perfezionista: non mi bastava la qualità delle tovaglie e sono andato a comprare il lino in Irlanda. A quel punto però non ero soddisfatto della tintoria israeliana e me la sono costruita su misura con macchine tedesche. Tutti questi investimenti per 7 tavoli, difficile fare profitti». Dopo n anni ha dovuto chiudere, i debiti e la bancarotta lo hanno inseguito a lungo, «ma non sono mai stato così contento. Nella vita ci sono diversi capitoli: grazie al cielo, avevo superato il mio periodo arrogante, vanitoso, borioso. Ho aperto "Salon" e ho capito che l'elemento più importante sono le persone: quelle che lavorano con te e i clienti. Non il tuo ego». Il lungo bancone di "Salon" è ricoperto di verdura fresca. Eyal tocca tutto, assaggia tutto, tiene un calamaro crudo tra le dita e continua a massaggiarlo, ogni tanto ne annusa il profumo di mare. Entra nel flusso dei cuochi che lavorano con lui in questo ristorante alla periferia di Tel Aviv, aperto solo due sere a settimane. Il primo turno è più rilassato, la musica di sottofondo classica, quasi esclusivamente Mozart. Dalle io.3o cambiano ritmo e atmosfera, passata la mezzanotte è difficile far scendere i clienti dai tavoli dove sono saliti a ballare. Ormai ultracentenaria la metropoli sul Mediterraneo è più vecchia dello Stato d'Israele. Resta la bambina ribelle e irriverente. Shani ha aperto altri locali con un gruppo di deejay: come lui portano gli occhiali hipster dalle montature di plastica nera, quanto lui sono convinti che la gerarchia rovini la qualità. Nei pochi metri quadrati al chiuso di Port Said — la maggior parte dei tavoli è fuori sotto un portico — i vecchi 3,3 giri di vinile ricoprono le pareti, il menu mantiene lo stile e il segno dello chef, i prezzi sono accessibili ai giovani. I cuochi hanno pochi anni di più, gli avambracci tatuati e la maglietta con cui sono arrivati da casa, ognuno prepara il piatto dall'inizio alla fine. «Qui non c'è catena di montaggio, nessuno dà ordini, i ragazzi non sono trattati come soldati. Lascio loro la libertà di creare: non è anarchia, significa che ciascuno è responsabile di quello che cucina. Sono le mie creazioni, loro ci mettono la firma finale. Questo ovviamente lascia spazio agli errori, ma se tu ogni sera produci del cibo meticoloso, preciso fino all'ultimo grado di cottura o pizzico di condimento, non impari niente. Gli sbagli costringono ad analizzare e a migliorare. Dare il potere ai cuochi, spronarli a creare non è rischioso, sono loro a costare tanto, non le materie prime: se qualche tentativo riesce male, c'è sempre il bidone della spazzatura». Azzardare, osare, esporsi, *are l'asticella ancor prima di aver capito su quali ingredienti sostenerla. È andata così anche a New York dove Shani ha riprodotto la versione americana del suo «Miznon», cotture lente per clienti irrequieti, verdure al forno e pita ripiene da mangiare anche per strada. «Prima dell'apertura sono stato intervistato da Florence Fabricant e le ho proclamato che avrei rivoluzionato l'hamburger sarebbe diventato il migliore degli Stati Uniti. Mentre pronuncio queste parole, una vocina nella testa mi avverte "devi essere impazzito", come se un italiano arrivasse a Tel Aviv promettendo di reinventare l'hummus. Ormai l'ho detto al New York Times e non ho la più vaga idea di come fare. Il giorno prima dell'inaugurazione non ho ancora un hamburger decente, stiamo traducendo il menu dall'ebraico all'inglese: avevo l'intuizione di proporre un hamburger roll, i miei collaboratori mi hanno suggerito che suonava troppo banale, ormai tutto è roll. Qualcuno propone di usare la parola folded, mi blocco folgorato, vado in cucina e schiaccio la carne trita con la pressa per le tortilla, diventa molto sottile, la cuocio così sulla piastra, la ripiego e la metto nella pita. È eccezionale: con il primo morso stai addentando anche il vapore che è rimasto dentro il risvolto. A questo va aggiunto il sapore creato dal movimento, dal ripiegare. Terzo passaggio: ho cotto il disco di carne solo da un lato, così ti ritrovi un hamburger ripieno di una tartare». L'autostrada scende verso sud, verso la Striscia di Gaza e il conflitto irrisolto con i fondamentalisti palestinesi di Hamas, sembra scorrere indietro nel tempo, nel passato di un Paese fondato da agricoltori-soldati. Adesso le serre sono iper-tecnologiche, le alchimie della genetica per ottenere semi sempre migliori. I suoi ristoranti in Israele consumano 18 tonnellate di pomodori al mese e «Salon» da solo inforna i800 cavolfiori. Shani visita le piantagioni appena può, interroga il suo coltivatore di fiducia, scruta il cielo come un contadino per capire quanti e quanto buoni ne potrà servire nei prossimi mesi. Stacca un pomodoro, lo assaggia. È soddisfatto. «Abbiamo faticato per ridurre l'acidità, molto alta con questi terreni e il sole del Medio Oriente». Accarezza gli altri. «Qua sono circondato dai miei complici più preziosi».

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