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Corriere della Sera Rassegna Stampa
08.04.2019 La storia di Babij Jar narrata da Anatolij Kuznecov
Recensione di Giorgio Montefoschi

Testata: Corriere della Sera
Data: 08 aprile 2019
Pagina: 29
Autore: Giorgio Montefoschi
Titolo: «Nella fossa del Novecento»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/04/2019, a pag. 29, con il titolo "Nella fossa del Novecento", la recensione di Giorgio Montefoschi a "Babij Jar", di Anatolij Kuznecov.

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Giorgio Montefoschi

Babij Jar è il nome di un luogo: un burrone alla periferia di Kiev nel quale fu perpetrato a opera dei nazisti uno dei crimini più orrendi nei confronti degli ebrei che in quella città vivevano da secoli (in seguito nei confronti dei partigiani comunisti, dei prigionieri, della popolazione civile fino a raggiungere un numero di oltre 100 mila morti), e insieme il titolo di un romanzo-documento, scritto da Anatolij Kuznecov, di quei fatti diretto testimone, che oggi nella sua forma «completa», vale a dire integrata di tutte le parti cancellate dalla censura sovietica nella prima versione del racconto, pubblica meritoriamente Adelphi. La storia rocambolesca, raccontata nella prefazione, della prima versione di Babij Jar che nel 1965 Kuznecov consegnò alla rivista «Junost’», potrebbe costituire in sé stessa un piccolo, allucinante romanzo chiarificatore sulla prigione sovietica, quale fu e rimase per anni dopo la morte di Stalin — mentre, nei medesimi anni, i politici e gli intellettuali comunisti ne facevano il panegirico in Occidente.

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Babij Jar

«Ho sempre dovuto lottare per ogni frase — scrive l’Autore —, mercanteggiare, aggiungere robaccia ideologica. In Unione Sovietica, data la sua editoria gesuitica, tutto è aggrovigliato, complesso, su qualsiasi libro crescono stratificazioni e si aprono voragini censorie… Durante le mie assenze mi perquisivano l’appartamento, e in una occasione qualcuno appiccò il fuoco al mio studio che bruciò completamente». Finalmente, nel 1969, quando si rese conto che il lavoro di spoliazione del testo lo aveva ridotto di un quarto, Kuznecov microfilmò il suo testo completo e, con quello, fuggì a Londra, dove a cinquant’anni morì. Ora, con le parti reintegrate, o aggiunte, segnalate graficamente nell’edizione Adelphi, oltre alla ferocia nazista, il lettore conoscerà la violenza staliniana, l’antisemitismo sovietico, la fame, la miseria, le umiliazioni, le deportazioni, l’annullamento di un grande popolo trattato come un branco di bestie. Settembre 1941. A Kiev, abbandonata dall’Armata Rossa, entrano le truppe naziste. Poco dopo, le mine lasciate dai fuggiaschi, distruggono — provocando la morte di molti soldati tedeschi nonché di molti civili — svariati edifici e il centro della città. Un giorno, sugli steccati e sui muri, appare il seguente manifesto: «È fatto obbligo a tutti i giudei della città di Kiev e dei suoi dintorni di presentarsi lunedì 29 settembre 1941 alle otto del mattino all’angolo fra via Mel’nikovskaja e via Dchturovskaja (vicino al cimitero). Dotarsi di documenti, denaro, oggetti di valore, e anche di indumenti pesanti, biancheria, ecc. I giudei che non ottemperassero a queste disposizioni e venissero trovati altrove saranno fucilati». Biancheria, indumenti pesanti: che significa? Gli ebrei di Kiev non capiscono, o non vogliono capire. E, come accadrà tra breve nelle principali città europee, si presentano ordinati, in una lunga fila, all’appuntamento con la morte. Il cui teatro è il lugubre burrone di Babij Jar. Qui, gli ebrei — uomini donne, vecchi, bambini — vengono fatti spogliare e posizionati di fronte a delle fosse, in fila. Con un solo colpo di pistola alla nuca cadono nella fossa. Sui loro corpi — anche su quelli che ancora non sono morti e agonizzano — viene gettata della terra; segue una seconda fila; quindi una terza. E così di seguito. È un massacro scientifico. Gli spari continuano ininterrottamente. Nella sola prima giornata — altri se ne aggiungeranno fino a colmare quel baratro di semplici cittadini, zingari, ribelli, autori del furto di una mela — i morti sono 30 mila: «Spari pacati, tranquilli, ritmici, come durante un addestramento».

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La copertina (Adelphi ed.)

A quell’epoca Kuznecov è un ragazzo di 12 anni, vivace e curioso come potevano essere i «ragazzi della via Pál». Il padre, comunista convinto, ha abbandonato la famiglia. Sua madre fa la maestra. Il nonno vive in casa con loro. Ed è proprio lui, che è vissuto sotto gli zar e sotto la rivoluzione, che ha conosciuto la miseria degli zar e quella della rivoluzione, proprio lui che ha visto la rivoluzione trasformarsi in un gigantesco inganno, oltre che in uno spietato meccanismo di morte, a incarnare la memoria «contrapposta» di Babij Jar. Perché, se è vero che il lettore di questo libro unico, terrificante,costruito su testimonianze dirette, rimane sconvolto dall’ingegneria nazista del male, sostenuta dalla completa indifferenza, quasi più che dall’odio, nei confronti degli ebrei e di tutte le vittime di questa ferocia primordiale, è altrettanto vero che i racconti sul terrore staliniano, sulla pianificazione dell’annientamento di milioni di cittadini russi e poi sovietici, ingannati dal sole dell’avvenire, e di nuovo ridotti a servi della gleba, a schiavi di un diverso potere, lasciano senza fiato. Per leggere i capitoli sulla carestia, sui cannibali, su quello che avveniva nelle camere di tortura della Nkdv, con le grida disperate che si udivano fino in strada, con quei cadaveri che volavano dalle finestre, bisogna prepararsi. Con un’intuizione profonda, Kuznecov spiega come si siano combattute due barbarie, si siano affrontati due campi di concentramento. Entrambi volevano estendere il dominio su tutto il mondo: «La guerra santa dell’Urss contro Hitler non fu altro che una lotta straziante per il diritto di restare rinchiusi nel proprio campo di concentramento anziché in quello straniero, nutrendo speranze di estenderlo al mondo intero». Non c’erano differenze di principio, dice Kuznecov, fra i due sadismi: «Nell’umanesimo tedesco di Hitler c’erano più inventiva e crudeltà fantastica, ma nelle camere a gas e nei forni crematori morivano cittadini di altre nazioni. L’umanesimo socialista non si spinse a immaginare i forni crematori, ma in compenso annientava i propri connazionali». E tutti, in Germania e in Urss, sapevano tutto. Poi la guerra finì. Prima di ritirarsi, i tedeschi avevano cercato di occultare l’abominio di Babij Jar riempiendo il burrone di terra. I russi, dal canto loro, non avevano alcuna intenzione di dare alcun rilievo al massacro ebraico: «Quale Babij Jar? Quello dove hanno sparato ai giudei? E perché dovremmo mettere un monumento a quei rognosi?» dicevano i comunisti di Kiev. E su quell’immensa tomba animata per parecchio tempo cadde il silenzio.

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