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Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.02.2019 'A via della Mercede c’era un razzista', di Giampiero Mughini: la storia di Telesio Interlandi, fascista e antisemita
Recensione di Ernesto Galli della Loggia

Testata: Corriere della Sera
Data: 28 febbraio 2019
Pagina: 34
Autore: Ernesto Galli della Loggia
Titolo: «Colto, innovatore e razzista»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/02/2019, a pag.34, con il titolo "Colto, innovatore e razzista" la recensione di Ernesto Galli della Loggia.

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Ernesto Galli della Loggia; la "Difesa della razza"

È raro che una riedizione solleciti (e meriti) una recensione. Ma come ogni regola anche questa richiede che non se ne tenga conto quando ci siano buone ragioni per farlo. E per il libro di Giampiero Mughini A via della Mercede c’era un razzista (Marsilio) mi sembra proprio che tali ragioni ci siano. La prima e più ovvia è la scarsa attenzione di cui questo libro fu oggetto quando uscì più di venticinque anni fa. Ma non da parte dei lettori diciamo così comuni, che allora non mancarono, bensì da parte dei lettori di professione e del pubblico dei competenti, insomma di quella che si chiama la critica. Messa evidentemente in imbarazzo e in allarme dall’argomento e specialmente, io credo, dal modo in cui queste pagine ne trattano. Il razzista del titolo è nient’altri che Telesio Interlandi, fondatore e direttore fino alla fine de «La Difesa della razza», la rivista voluta espressamente da Mussolini che dal 1938 al 1943, nel quadro di un razzismo forsennato a tutto campo, fu la banditrice in Italia del più violento e turpe antisemitismo. Ho appena detto dell’imbarazzo e dell’allarme della critica per un libro che quando apparve era uno dei primi se non dei primissimi sull’argomento (in sostanza c’era stato in precedenza solo il lavoro di Renzo De Felice). E che però era — e naturalmente è — un libro su Interlandi e sul razzismo, ma a modo suo. Al modo cioè di Giampiero Mughini: di uno che nella sua vita è stato uno strepitoso collezionista di libri, immagini e memorie d’ogni tipo riguardanti la vicenda artistica e culturale del Novecento italiano (possedeva fino a poco tempo fa, prima di venderla, una tra le maggiori raccolte di prime edizioni del futurismo italiano), e che dunque si è costruito una conoscenza come pochi di quel mondo. Della fitta rete di amicizie e di contrasti, di fedeltà e di tradimenti, di slanci ideali e di miserie, che lo caratterizzarono. Per l’appunto su un tale sfondo, restituito mirabilmente in queste pagine in tutta la sua vivacità, l’autore colloca — se ne capirà fra poco il motivo — l’inquietante parabola di Interlandi — questo siciliano «normanno» sul quale aveva già posto uno sguardo indagatore poco prima di morire Leonardo Sciascia, che progettava di scriverne.

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La copertina (Marsilio ed.)

A Roma Telesio Interlandi si trasferisce non più giovanissimo, dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale e aver fatto le prime esperienze nella carta stampata a Firenze. Si fa subito notare per le sue capacità e ancor di più per la sua passione politica estrema. È un fascista senza mezze misure che piace a Mussolini, il quale lo prende in simpatia e gli affida la direzione di un nuovo quotidiano, «Il Tevere», del quale farà anche una sua personale cassetta delle lettere quando non vuole servirsi del troppo ufficiale «Popolo d’Italia». Dal canto suo Interlandi provvede a farne un foglio di battaglie aspre, di dure polemiche specie di carattere culturale contro i «bigi» e i «tiepidi» ai quali l’ala radicale e «rivoluzionaria» del fascismo si contrappone anche all’interno del regime «Il Tevere» vede la luce e vive sullo sfondo fremente della Roma politica e giornalistica degli anni Venti, allora così contigua al mondo delle arti e delle lettere di cui dicevo sopra. È la città dominata dall’atmosfera creata dal nuovo regime al potere, nei cui caffè e nelle cui pensioni si affollano giovani d’ingegno venuti a cercare fortuna dalla provincia, che diviene una fucina di sperimentalismi e di iniziative culturali le più varie, popolata di atelier di pittori, di gallerie, di scantinati teatrali, di sedi di giornali e riviste, destinate magari a durare pochi mesi ma che lasciano il segno. Insomma un ambiente culturale animatissimo, aperto, polemico, per nulla ripiegato nel conformismo. In questa Roma intellettuale quasi tutti sono fascisti, anche se naturalmente ognuno a suo modo, come del resto sarà fino alla fine. Anzi si direbbe che i più dogmatici e ortodossi, i più pronti a spingere il regime verso il radicalismo, siano proprio quelli più pronti a spendersi culturalmente e artisticamente sui sentieri delle suggestioni del «nuovo», ad aprirsi alle mille sensibilità dei tempi moderni. Mentre specialmente nelle file di ciò che è più vivo e suggestivo gli antifascisti, se ci sono, si contano sulle dita di una mano. Già l’aver raccontato di questa verità, di questa larghissima prevalenza del fascismo nel mondo della cultura italiana e della più giovane e moderna (che poi dopo il 25 luglio sarebbe diventata in altrettanta larga prevalenza di sinistra), non era certo cosa fatta per piacere troppo a chi lesse questo libro quando esso uscì. Che vi vide a ragione la smentita di alcuni luoghi comuni dell’antifascismo d’annata duro a morire: ad esempio che non ci fosse stata una cultura fascista, o che il fascismo fosse equiparabile a una congrega di manganellatori semianalfabeti. Uno stupore ancora maggiore dovette esservi nell’apprendere da questo libro che il famigerato capintesta del razzismo italiano, Interlandi appunto, aveva fatto il suo quotidiano e poi un settimanale, «Quadrivio», entrambi così duramente fascisti, aprendosi tuttavia a una larga collaborazione con quel mondo del quale peraltro faceva in fondo parte lui stesso. Aprendo ad esso le sue redazioni, facendo ampio spazio sui suoi fogli alla cultura, ai suoi esponenti più illustri: da Luigi Chiarini a Pirandello, da Alberto Moravia a Mario Praz, da Anton Giulio Bragaglia a Umberto Barbaro, da Antonello Trombadori a Carlo Bernari. Certo, di libri che hanno parlato di queste cose, dell’intreccio strettissimo tra la cultura italiana, specie quella della generazione più giovane, e il fascismo ce ne sono stati in seguito parecchi altri (ma in seguito appunto…). Pochi però lo hanno fatto con eguali ricchezza di testimonianze, varietà di rimandi e felicità narrativa, con una simile straordinaria abbondanza di episodi, di storie, di aneddoti e con un’analisi così informata e interessante dei circuiti e dei rapporti stabilitisi tra uomini e fatti di quel tempo. Proprio dopo aver letto il libro di Giampiero Mughini diviene però più impellente la domanda a cui neppure queste pagine riescono a dare risposta: com’è potuto accadere che un ambiente così intensamente impregnato di cultura abbia visto nascere dal suo seno un tale esempio di pregiudizio e di idiozia intellettuale, prima che di violenza bruta, come quello che Interlandi incarna già prima del 1938, e dopo quella data in misura forsennata? Perché su una cosa sola non mi sento di concordare con l’autore di questo libro: quando, trasportato da un eccesso di indebita benevolenza, egli scrive che il direttore della «Difesa della razza» «non aveva mai fatto del male a nessuno». In verità si può fare del male a qualcuno, eccome, anche se personalmente non gli si torce un capello. Offendere e insozzare l’immagine di un essere umano, additarlo al pubblico disprezzo, invocare nei suoi confronti l’isolamento sociale e la privazione di diritti, violentare con la calunnia la sua vicenda storica e culturale, significa compiere un’opera malvagia. Significa fare del male. Il che ci riporta a quello che è forse il principale enigma dell’antisemitismo conosciuto dall’Europa. Al fatto che di frequente ad esso diedero una mano entusiasta proprio alcune tra le menti migliori della cultura del continente. Se è vero come è vero, ad esempio, che nel caso dell’Italia non fu certo solo Interlandi, ma con lui tanti altri dotati d’ingegno, e in parte qui ricordati, i quali si arruolarono nella schiera del razzismo. Anche se post fata gli riuscì ciò che invece non riuscì a Interlandi: cioè far dimenticare quanto avevano fatto e soprattutto detto. Pure dover fare i conti con questo enigma, a cui il libro di Mughini lo metteva davanti, l’antifascismo d’allora — ancora ingenuamente convinto che ad essere cattivi potessero essere stati solo «i cattivi» e non anche tanti futuri «buoni» — non era cosa che poteva accettare facilmente. E infatti non l’accettò, preferendo ricorrere al vecchio stratagemma del silenzio. Un’altra buona ragione, mi sembra, per rompere oggi quel silenzio e riportare questo libro sugli scaffali delle librerie.

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