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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.12.2018 Liliana Segre, la Svizzera e gli ebrei respinti durante la Shoah: 'Non li perdono'
Cronaca di Giusi Fasano

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 dicembre 2018
Pagina: 27
Autore: Giusi Fasano
Titolo: «Segre al confine che le negò la libertà: non perdono l’uomo che ci respinse»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/12/2015, a pag. 27, con il titolo "Segre al confine che le negò la libertà: non perdono l’uomo che ci respinse", la cronaca di Giusi Fasano.

La storia non può essere cancellata, e bene fa Liliana Segre a ricordarlo. Il ricordo di quello che è accaduto è quello che conta, il resto è secondario. Chi mette al primo posto il "perdono" è disposto a cancellare la memoria dell'accaduto e di conseguenza le responsabilità di ciascuno. Per questo è un atteggiamento pericoloso e inaccettabile.

Ecco l'articolo: 


Giusi Fasano

Cinquecento ragazzi muti e attentissimi. È stato come se lei li avesse presi per mano ad uno ad uno e li avesse portati nel suo passato, nella sua storia. Con parole semplici e potenti. «Che cosa pensa delle persone che l’hanno perseguitata?» le chiede uno studente con la voce rotta dall’emozione. E lei: «Ho una paura antica e un disprezzo totale. Non perdono e non dimentico chi mi ha fatto del male. Non ho nemmeno voluto sapere i loro nomi».

 

 

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Liliana Segre

Lei è la senatrice a vita Liliana Segre, classe 1930, sopravvissuta alla Shoah e testimone del male assoluto, quello che i suoi occhi videro nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau fra l’inizio del ‘44 e il maggio del ‘45. Il numero di matricola che porta sull’avambraccio è 75190 e guai a ignorarlo o dimenticarlo, «sarà accanto al mio nome sulla mia tomba, perché io sono quel numero», dice. Non è la prima volta che Liliana parla a una platea di giovani studenti ma questo è un caso speciale. Siamo in Svizzera, il Paese che il 7 dicembre del ‘43 respinse lei e suo padre Alberto al valico di Arzo. Si credevano salvi, e invece le autorità elvetiche li riportarono al confine e il giorno dopo i soldati italiani li catturarono: quel no cambiò la rotta delle loro esistenze, fu il primo passo verso la morte per Alberto Segre, che poche settimane dopo finì in una camera a gas ad Auschwitz. E per Liliana, allora tredicenne, fu l’inizio di un tempo che lei oggi, come fece Primo Levi, definisce «indicibile». Per la prima volta dopo tutti questi anni, la donna che il presidente Mattarella ha voluto senatrice a vita in Italia, è venuta in Svizzera a tenere un discorso pubblico (promosso dalla Goren Monti Ferrari Foundation). E nell’aula magna dell’Università della Svizzera italiana, a Lugano, per la prima volta il consigliere di Stato del Canton Ticino, Manuele Bertoli, le ha chiesto scusa a nome del suo Paese per quel no sciagurato di 75 anni fa. «Io ho tanti amici qui. Sarebbe ingiusto generalizzare — risponde lei a chi le chiede se ha perdonato gli svizzeri —, ma certo non posso dire di non provare rancore verso l’uomo che quel giorno ci rimandò in Italia. Mi buttai a terra come una disperata, abbracciai le sue gambe implorandolo di non mandarci via. Lui ci fece riaccompagnare dalle guardie con la baionetta puntata alle spalle. Ricordo che sghignazzavano...». «Che cosa si può fare perché i giovani non dimentichino?» le ha chiesto una ragazzina. «La risposta sei tu, qui» ha replicato la senatrice. L’ex direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli è il presidente onorario del Memoriale della Shoah, nato sotto la stazione Centrale di Milano nel punto in cui partivano i treni diretti ai campi di sterminio. Ieri, presentando Liliana Segre, ha parlato dell’importanza della memoria, «un vaccino — ha detto — che ci fa essere cittadini migliori».

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