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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.10.2018 'Storia degli ebrei di Roma', di Riccardo Calimani
Recensione di Gian Antonio Stella

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 ottobre 2018
Pagina: 42
Autore: Gian Antonio Stella
Titolo: «La Città eterna degli ebrei»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/10/2018 a pag.42 con il titolo "La Città eterna degli ebrei" la recensione di Gian Antonio Stella.

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Gian Antonio Stella

«Lunedi i soliti 8 ebrei corsero ignudi il palio loro favoriti da pioggia, vento et freddo degni di questi perfidi, mascherati di fango al dispetto delle gride. Dopo queste bestie bipede correranno le quadrupede domani». Rileggiamo: «queste bestie bipede». Bastano queste righe pubblicate negli «Avvisi di Roma» del 16 febbraio 1583 per capire quanto fossero radicate le ostilità anti-ebraiche nella Città eterna che ottant’anni fa si adeguò silente, per non dire di peggio, alle leggi razziali del 1938 che avrebbero aperto la strada, cinque anni dopo, alla retata nazista. Per oltre due millenni, infatti, come documenta lo storico Riccardo Calimani nella Storia degli ebrei di Roma. Dall’antichità al XX secolo appena edita da Mondadori, i rapporti tra i romani e «li giudii» erano stati segnati da periodi di conflitti e aperture, aperture e conflitti.

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La copertina (Mondadori ed.)

Dalla lettera del 325 di Costantino a tutte le Chiese dell’impero («Vi esorto pertanto a non serbare nulla in comune con l’odiosissima turba giudaica») all’ordine agli ebrei di portare una «rotella gialla» sul petto, dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum che istituì il Ghetto di Roma alle «prediche coatte», dalle feste per la Breccia di Porta Pia (vista da qualche ebreo come «il Giorno in cui il Signore ha tratto il suo popolo fuori dal crogiolo delle sofferenze, portandolo da schiavitù in libertà») fino alle virtuose solidarietà e alle odiose complicità negli anni della «Difesa della Razza». Nulla però spiega cosa rimestasse per secoli nella pancia del popolino quanto le infami bravate del carnevale romano, cancellato per i troppi eccessi solo da Clemente IX nel 1667. Bravate dedicate in larga parte, come ricordano quelle del marchese del Grillo, agli ebrei. «Giudate», le chiama Giovanni Mario Crescimbeni, fondatore dell’Accademia dell’Arcadia, nell’Istoria della volgar poesia: «Giudate perciocché in esse non si tratta d’altro che di contraffare e schernire gli Ebrei in istranissime guise, ora impiccandone per la gola, ora strangolandone e facendone ogn’altro più miserabil giuoco». Ed ecco «l’ebreo dentro la botte rotolato dalla plebaglia» raffigurato nella celebre incisione di Bartolomeo Pinelli. Il rito umiliante del calcio nelle natiche al Gran Rabbino prostrato davanti al «Senatore».

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Riccardo Calimani

La sommossa che scoppia, raccontata nel Meo Patacca, alla notizia (falsa) degli ebrei alleati dei turchi nell’assedio a Vienna: «Sul mezzo dì, pe’ la città si sparze / sta nova appena, e la sentì la plebbe / ch’arrabbiata de collera tutt’arze / e li Giudii già lapidà vorrebbe…». «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto», dice il «Manifesto degli scienziati razzisti» pubblicato il 5 agosto 1938 nel primo numero de «La Difesa della Razza»: «Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani». In realtà, spiega Calimani, «gli ebrei vivevano a Roma probabilmente ben prima della seconda metà del II secolo a.C. quando, in particolare tra il 161 e il 165, Roma e Gerusalemme cominciarono ad avere i primi contatti politici ufficiali». Molti altri si aggiunsero dopo le campagne di Pompeo con «l’arrivo di numerosi ebrei ridotti in schiavitù, sia a causa delle annessioni romane di territori dell’Asia minore, della Siria e dell’Egitto, dove esistevano comunità ebraiche molto numerose, sia a causa dell’occupazione della stessa Giudea». In città, «molti dei nuovi arrivati andarono a vivere in quartieri assai popolosi: gli ebrei erano numerosi nell’isola Tiberina, tant’è che al ponte Cestio fu dato il nome di pons Iudaeorum…». E non c’era solo il Ponte dei Giudei. Via via, infatti, come ricorda lo storico capitolino Claudio Rendina, si aggiunsero Piazza Giudia, l’Ortaccio degli Ebrei («detto anche de’ Giudei, sprezzante definizione del cimitero israelita alle falde dell’Aventino»), un altro Campo Giudeo a Trastevere, la Piazza delle Scòle, dove avevano sede ben cinque scuole ebraiche… Già ai tempi del consolato di Marco Tullio Cicerone, scrive Calimani, «secondo alcune fonti gli ebrei che vivevano in città erano circa 50-60.000, su una popolazione di quasi un milione di abitanti».

E insomma tutta la storia degli ebrei, quando il fascismo scelse di cavalcare il razzismo, era intrecciata da oltre ventidue secoli con la storia della città Caput Mundi. Di famiglia ebraica era Tito Flavio Giuseppe, nato col nome di Yosef ben Matityahu, lo storico che dopo esser finito a Roma come prigioniero entrò nelle grazie di Vespasiano, di cui prese il nome gentilizio, per vivere fino alla morte alla corte imperiale. E così Pietro Pierleoni, eletto Papa (ma considerato antipapa) nel 1130 col nome di Anacleto II contro Innocenzo II imposto dai Frangipane. E Sidney Sonnino, romano d’adozione, più volte ministro nonché presidente del Consiglio del Regno. E il grande sindaco capitolino Ernesto Nathan che a settant’anni fu il più vecchio dei volontari decisi a combattere nella Grande guerra. Alla quale parteciparono non solo patrioti di famiglia ebraica ma addirittura dei «rabbini militari» mandati al fronte per tener su il morale ai soldatini fedeli al Talmud… Ne avevano passate tante, gli ebrei romani, già prima del 1938. Ma in quell’annus horribilis tirava un’aria davvero fetida. Scrive Calimani: «Sui giornali, per esempio sul “Popolo” di Torino, si potevano leggere articoli in cui comparivano affermazioni come: “Diecimila volontari ebrei nelle file dei rossi spagnoli”. Oppure sulla “Sera” di Milano si poteva trovare un titolo di questo tipo: “I figli dei matrimoni misti con gli ebrei sono predisposti alla tubercolosi”. Il 12 gennaio, sul “Regime Fascista”, Roberto Farinacci aveva scritto: “Chiediamo che i 43 milioni di italiani cattolici abbiano in tutti i centri più delicati dello Stato e della vita della Nazione i propri legittimi rappresentanti; essendo gli ebrei quasi la millesima parte della popolazione, bisognerebbe concludere che su mille posti uno spetterebbe agli ebrei, novecentonovantanove ai cattolici”». Va da sé che nella piccola comunità israelita montasse di giorno in giorno la paura. Pio XI, certo, non era d’accordo con questi sedicenti «cattolici» fascisti. Basti rileggere la parole nette che usò il 28 luglio 1938 davanti agli alunni del Pontificio collegio urbano De Propaganda Fide, che erano più di duecento e arrivavano da trentasette Paesi: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali… La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa». Non bastasse, fece pubblicare sull’«Osservatore Romano» una chiusa: «Ci si può chiedere quindi come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». Il Duce, arrogante, rispose nel discorso a Trieste del 18 settembre: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni (di Hitler), sono dei poveri deficienti…». Cinque anni dopo dalla Tiburtina partivano i vagoni per Auschwitz.

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