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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.06.2018 Se voler riparare il mondo non basta
Commento di Yaniv Iczkovits

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 giugno 2018
Pagina: 19
Autore: Yaniv Iczkovits
Titolo: «Il dono del Tikkun che salverà Gaza»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/06/2018, a pag. 19, con il titolo "Il dono del Tikkun che salverà Gaza", il commento di Yaniv Iczkovits.

Le parole dell'israeliano Yaniv Iczkovits sono condivisibili, ma non bastano. I buoni propositi e i tentativi di "riparare il mondo", infatti, vanno confrontati con le condizioni oggettive del mondo e le responsabilità di ciascuno. Per quanto riguarda il conflitto tra terroristi arabi palestinesi e Israele, le responsabilità sono tutte di chi non accetta la convivenza e ha l'obiettivo non tanto di edificare uno stato arabo, quanto piuttosto di distruggere quello ebraico. Se non si ricorda questo, ogni analisi - come quella di Yaniv Iczkovits - diventa un generico appello ai buoni sentimenti di ciascuno che non porta a risultati.

Ecco il pezzo:

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Yaniv Iczkovits

Mio nonno, Moshe Iczkovits, non era registrato nelle liste dei tedeschi, eppure salì su un trasporto diretto ad Auschwitz. Salì sul treno della morte per seguire la sua amata, senza poter immaginare quale sorte li aspettava. All’arrivo mio nonno era destinato a morire, ma un medico del campo di Auschwitz ebbe pietà di lui e modificò il numero che aveva sul braccio. Fu così che mio nonno si salvò e fu spedito in un campo di lavoro. Dopo la guerra, quando tornò alla cittadina dov’era cresciuto, si rese conto di non poter restare oltre nella terra dove era nato. Il suo Paese l’aveva tradito. Israele rappresentò il suo tikkun, la sua riparazione. Quando nacqui all’ospedale Soroka di Beersheva, negli anni Settanta, insieme a me erano nati altri bambini, arabi, figli di persone del posto, a cui il nonno raccontò una storia del tutto diversa. Vivevano in paesi e città della Palestina, finché un giorno scoppiò la guerra e furono costretti ad abbandonare le loro case. Alcuni raccontano di essere scappati per paura, altri che gli ebrei li cacciarono dalle loro abitazioni. Comunque sia andata, il giusto tikkun ottenuto dagli ebrei con la fondazione dello Stato di Israele significò la catastrofe per molti figli di questa terra. Il tikkun di un uomo è la catastrofe di un altro e ancora oggi non si è trovata la riparazione per questa parte del mondo.

 

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Noi israeliani abbiamo imparato a convivere con il conflitto come si convive con un tumore. Periodicamente ricominciamo l’ennesimo aggressivo ciclo di sedute di chemioterapia, da terra o dall’aria, ma ogni volta il tumore colpisce un’altra parte del corpo. Un tempo c’erano infiltrazioni dalla Striscia di Gaza, e abbiamo costruito le recinzioni. Poi è stata la volta dei missili Qassam, e ci siamo riparati sotto una Cupola di Ferro. Dopodiché hanno scavato i tunnel e noi abbiamo levato una barriera. Adesso è la volta degli aquiloni che incendiano i nostri campi. Forse inventeremo il frumento che non brucia. Chi lo sa come andrà a finire. Per quanto noi possiamo inventare e perfezionare, nessun tikkun arriverà. Le due parti sono troppo occupate a fare paragoni e discutere di chi ha sofferto di più e a quali privilegi questo gli dà diritto. Nel corso degli anni, i politici hanno tentato di disegnare mappe, definire linee di confine e firmare accordi parziali. Nessuno si occupa più di ciò che costituisce il cuore del conflitto: il dolore dei due popoli. Si tratta di un ottimo esempio di completo fraintendimento del concetto di tikkun: questa terra non richiede mappe, bensì una consapevolezza condivisa. Non un coinvolgimento internazionale, ma fiducia. Non unilateralità, collaborazione. L’ultimo romanzo che ho scritto («Tikkun o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny») viene a rammentarci che il tikkun nell’anima di un uomo, o nello spirito di un popolo, non può avvenire se non si rovista nelle ferite. Il tikkun richiede di superare i confini, di uscire dalla zona di comfort. Ci costringe a fare qualcosa che non abbiamo mai fatto. Ci obbliga a riconoscere quello che abbiamo sempre cercato di dimenticare. Ci invita a raccontarci una storia diversa da quella a cui siamo abituati. È questa la grande forza della letteratura. Mentre la realtà produce giustificazioni e spiegazioni su quanto avvenuto, su cosa bisogna fare e come bisogna reagire, la letteratura esige attenzione. La realtà ci incanala subito verso la nostra visione, la letteratura impone di cancellare i confini. Mi ricordo un giorno, ero impegnato come riservista nella Striscia di Gaza e mi trovavo a un posto di blocco a osservare «i miei nemici» attraverso un binocolo. D’un tratto nel cortile di una delle case ho visto un papà di Gaza giocare a calcio con i figli e le figlie. Ricordo di essere rimasto stupefatto di fronte a quel quadretto così banale. I miei occhi non erano avvezzi a scene simili. Le mie orecchie non erano abituate a udire scoppi di risa dall’altra parte. Sono rimasto a fissare per ore quella famiglia che nemmeno sapeva di essere osservata, come se si trattasse di un miracolo. È questo che succede quando le persone sono rinchiuse nei loro confini. La comprensione basilare, naturale, dell’umanità dell’altra parte, diventa quasi impossibile. Ecco, oggi sia da parte degli israeliani sia da parte dei palestinesi non avvengono molti miracoli, e le barriere si fanno sempre più alte. Eppure alla base di tutto, volendo essere ottimisti per un momento, sia nella storia israeliana sia nella storia palestinese ci sono dolore e giustizia. Le storie sono lì, aspettano qualcuno che faccia il primo passo e attraversi il confine. Per quanto la soluzione del conflitto sembri impossibile da un punto di vista diplomatico e storico, per quanto la sicurezza paia irraggiungibile. Alla fine due persone, un palestinese e un israeliano, si troveranno una di fronte all’altra, alzeranno gli occhi dalle mappe, si guarderanno negli occhi e diranno: noi vogliamo la riparazione, vogliamo il tikkun.
(Traduzione di Raffaella Scardi)

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