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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.06.2018 La Primavera di Praga è diventata autunno
Analisi di Olivier Guez

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 giugno 2018
Pagina: 45
Autore: Olivier Guez
Titolo: «La Primavera di Praga è diventata autunno»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA/LETTURA del 03/06/2018 a pag.45, con il titolo "La Primavera di Praga è diventata autunno", l'analisi di Olivier Guez.

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Olivier Guez ha pubblicato saggi, romanzi ed è autore della sceneggiatura del film "Lo Stato contro Fritz Bauer". A destra la copertina del suo libro, pubblicato recentemente da Neri Pozza ed.

Questa primavera, Praga rende omaggio al suo fotografo più illustre, Josef Koudelka, in occasione di una retrospettiva al Museo delle arti decorative. Vi si possono ammirare le inquadrature scattate dietro le quinte teatrali della sua giovinezza, una raccolta sugli zingari della Slovacchia, e le celebri foto dell’invasione sovietica, nell’agosto del 1968, che mise brutalmente fine alla Primavera di Praga. Sono immagini che appaiono ancora oggi sconvolgenti: si vedono i praghesi che attaccano i carri armati del Patto di Varsavia con lanci di pietre e bottiglie Molotov; altri che tentano di ostacolare la loro marcia, aggrappati a un autobus coperto di scritte in russo, oppure sventolano bandiere cecoslovacche, alcune macchiate di sangue. Ci sono donne in lacrime, facce cupe e amareggiate e gli sguardi dei giovani insorti nelle piazze stracolme. Sono immagini che puzzano di polvere e risuonano ancora degli insulti urlati al passaggio dei blindati, del ticchettio metallico dei cingoli sovietici sull’asfalto ceco. Koudelka ha saputo cogliere il coraggio e il sacrificio dei praghesi per consegnarli all’eternità. Le sue foto hanno plasmato la mia percezione della Primavera di Praga, la più audace e forse la più nobile ribellione di quel 1968. L’utopia di un socialismo dal volto umano ha fatto vacillare il blocco comunista nell’Europa orientale e ha screditato per sempre il totalitarismo sovietico, che sarà finalmente spazzato via dalle rivoluzioni di velluto nell’autunno del 1989. Praga ’68: immagino che i cechi ne vadano fieri e custodiscano amorevolmente il ricordo dei loro eroici fratelli maggiori, a mezzo secolo di distanza. Verso la metà degli anni Sessanta la Cecoslovacchia entra in crisi.

La sovietizzazione dell’economia e la linea dura di Antonín Novotný, segretario generale del Partito comunista, stanno portando il Paese alla rovina finanziaria e morale. I processi staliniani, i più spettacolari dell’Europa centrale, pesano sulle coscienze: le loro vittime non sono state riabilitate. Gli slovacchi reclamano una revisione della Costituzione che potrebbe portare alla divisione della Repubblica socialista. Sul finire del 1967, Alexander Dubcek, segretario generale del partito a Bratislava, accusa Novotný di voler sacrificare la Slovacchia. Due sono i focolai che divampano nell’opposizione al regime. In seno al partito, i tecnocrati studiano una riforma dell’economia pianificata e nuove strategie in politica estera. L’Unione degli scrittori è più intrepida: a Praga, come a Bratislava, sconfessa l’ortodossia marxista e il ruolo guida del partito, auspicando che il Paese sappia riscoprire i suoi legami con l’umanesimo e il costituzionalismo della prima Repubblica di Tomáš Masaryk. La Cecoslovacchia era stata l’unica democrazia dell’Europa centrale tra le due guerre mondiali e doveva essere la prima a conciliare pluralismo e socialismo. I registi Miloš Forman e Jan Nemec, gli scrittori Milan Kundera, Bohumil Hrabal e Josef Škvorecký, affiancati da un promettente drammaturgo, Václav Havel, si fanno portavoce della contestazione giovanile. A seguito della repressione di una manifestazione di studenti che reclamano migliori condizioni di vita nelle città universitarie, Novotný è sostituito da Dubcek a capo del partito.

È il gennaio del 1968. Figlio di un comunista che si era recato in Russia per costruire il socialismo dopo la rivoluzione bolscevica, Dubcek è un sorridente apparatchik di 46 anni. Preferisce assistere a un incontro di hockey piuttosto che andare in visita al suo protettore moscovita, come fanno di solito i segretari generali degli Stati satelliti non appena vengono insigniti di cariche di governo. Dovrà scegliere tra una timida liberalizzazione, appoggiandosi agli apparati dello Stato, e una democratizzazione più ampia, sostenuta da una costellazione progressista. Nell’uno e nell’altro caso, avrà bisogno di assicurarsi l’approvazione di un congresso straordinario del partito. A giugno viene fissata la data, si terrà il 9 settembre 1968. I tempi stringono, la società non ha più voglia di aspettare. Nel Manifesto delle 2000 parole, lo scrittore Ludvík Vaculík esige la separazione dei poteri dello Stato e la libertà di stampa: la censura è abolita, le vittime dello stalinismo sono riabilitate. Giorno dopo giorno sorgono nuove associazioni, la gente discute e ricomincia a viaggiare all’estero. «Era il carnevale», scrive Kundera nel suo Libro del riso e dell’oblio. Il Paese si apre, riscopre Kafka (a lungo vietato) e riallaccia i rapporti con la cultura europea; al festival di Cannes, vengono presentati in gara tre film cecoslovacchi. «Abbiamo combattuto per aver diritto a questa tradizione, minacciata dal messianesimo antioccidentale del totalitarismo russo», scriverà Kundera. La popolazione non chiede un ritorno al capitalismo, bensì un’autentica democrazia socialista. Praga è the place to be, la città alla moda, scrive il «New York Times» nei primi giorni d’estate del 1968. Cinquant’anni dopo, mentre i Paesi dell’Europa occidentale ricordano il Sessantotto, non resta più alcuna traccia di quella lontana primavera nel centro barocco sfigurato di Praga, dove accanto al Museo Apple pullulano i bar delle tapas e i centri di massaggi thailandesi. Nessun manifesto, nessuna mostra, poco o nulla nei quotidiani o alla radio o in televisione — mi dicono — e nessuna nuova opera in libreria. Qualche libro è previsto per l’estate, ma sarà consacrato all’invasione sovietica e alla resistenza civile che la seguì. Espongo le mie osservazioni a Jirí Hoppe, ricercatore presso l’Istituto di storia contemporanea dell’Accademia ceca delle scienze. Non è affatto sorpreso: «Innanzitutto, a causa del divorzio consumato nel 1993, i cechi non si identificano più con Dubcek, lo slovacco, che comunque finì per cedere alle pressioni di Mosca. Secondo, il socialismo dal volto umano non interessa a nessuno se non alla sinistra non comunista e ai Verdi, partiti ultra minoritari. Per la stragrande maggioranza della popolazione — spiega a “la Lettura” — il Sessantotto fu un’aggressione, un dramma immane, che non si presta a nessuna commemorazione».

A eccezione di Havel, i sostenitori della Primavera di Praga, i tecnocrati e gli scrittori dell’Unione, erano tutti comunisti. Nel dopoguerra, il marxismo-leninismo aveva sedotto l’intellighenzia cecoslovacca: l’Armata Rossa aveva liberato la maggior parte del Paese; c’era stato il tradimento degli occidentali nel 1938 a Monaco; la nazione aveva subito la feroce occupazione nazista. Convinti che il comunismo avrebbe favorito la costruzione di una società più giusta, i giovani dell’epoca avevano lasciato fare agli stalinisti (quando non lo erano loro stessi), in piena rottura con la tradizione democratica cecoslovacca. Verso la metà degli anni Sessanta, avevano tentato di rimediare ai loro errori, ma sempre all’interno di una cornice socialista: Dubcek non aveva mai pensato di abbandonare il Patto di Varsavia. L’impresa era fallita, il comunismo si era rivelato irriformabile e per quella generazione, che si era sbagliata due volte, fu la fine delle illusioni e l’inizio del purgatorio. «La dissidenza si farà strada nel decennio successivo e combatterà per la creazione di una vera democrazia liberale. Dopo il 1989, il revisionismo comunista sarà accantonato e schernito. Václav Klaus (presidente della Repubblica Ceca dal 2003 al 2013, ndr) era solito affermare che la terza via portava dritta al Terzo Mondo. Oggi, i sessantottini sono guardati con sospetto, oppure vengono presi per cretini. Per alcuni, è addirittura un insulto», commenta Vítezslav Sommer, anche lui storico dell’Accademia delle Scienze. La repressione seguita all’invasione si rivelò implacabile e durò per oltre un ventennio. Questo, a Praga, nessuno l’ha dimenticato. Una bella mattina di sole sono andato a trovare un decano dell’Unione degli scrittori, il romanziere Ivan Klíma, la cui opera fu censurata e la famiglia sottoposta a vessazioni negli anni successivi al Sessantotto. In Amore e spazzatura, Klíma racconta la vita quotidiana di uno scrittore di successo, «imbavagliato dalla censura», conteso tra due donne e costretto dalle autorità a diventare netturbino, «una storia di immondizie in un mondo che riesce a trasformare la gente in rifiuti», come scrive Philip Roth nel suo Chiacchiere di bottega a proposito del romanzo dell’amico Klíma (alla morte di Roth, nessuno ha ricordato il suo sostegno agli scrittori del «blocco orientale»). Colpiti dal divieto di pubblicare e ostracizzati socialmente, gli scrittori sessantottini hanno pagato a caro prezzo la normalizzazione. «Come in Amore e spazzatura, i miei confratelli sono stati costretti a lavare vetri, vendere sigarette o a fare i muratori per guadagnarsi da vivere. Io avevo la fortuna di ricevere i diritti d’autore per i miei libri pubblicati all’estero. Mi era stato vietato di lavorare. Il potere, un branco di collaborazionisti, temeva le critiche», conclude Klíma, 87 anni, con voce affaticata. In Occidente il Sessantotto è stato un trampolino di lancio per fare carriera ; in Cecoslovacchia i suoi attori sono stati annientati oppure costretti all’esilio dalla polizia segreta del regime diretto da Gustáv Husák. Dubcek farà il giardiniere a Bratislava.

«Centoventimila cechi hanno abbandonato il Paese e circa mezzo milione di cittadini sono stati obbligati a lasciare il lavoro per essere adibiti a operai in fabbriche lontanissime, sperdute nel nulla, oppure condannati alla guida dei camion, vale a dire esiliati in luoghi da dove mai più nessuno avrebbe udito la loro voce», scrive Kundera, che andrà in esilio in Francia. A eccezione di un manipolo di dissidenti, raccolti attorno a Charta 77, tutti gli altri sono stati costretti ad accettare, o addirittura appoggiare, il regime, in un modo o in un altro. Poco tempo prima di morire, nel 1988, mio nonno materno, i cui genitori erano cechi, mi aveva portato a Praga, città che non aveva mai visitato. Voleva cercare tracce della sua famiglia, gli Stein. Inutilmente. Abbiamo vagabondato in una città paralizzata dalla paura e dalla noia. I negozi erano vuoti, la gente sfuggente e triste, Praga sembrava una bella addormentata. La Cecoslovacchia fu l’ultimo Paese dell’Europa centrale a liberarsi dal comunismo, verso la fine del 1989. La mia visione della Primavera di Praga era tipicamente occidentale: una rivolta libertaria come tante altre, su scala planetaria, Tokyo, Parigi, Città del Messico. Qui, invece, scopro una nuova narrativa. Il Sessantotto non è visto come preludio alla rivoluzione di velluto capitanata da Havel, bensì rimanda al 1938 (Monaco) e al 1948 (la presa di potere dei comunisti), tre catastrofi, tre umiliazioni storiche in soli trent’anni, che ricordano ai cechi la vulnerabilità del loro Paese, la cui storia è sempre stata condizionata da potenze esterne (e ostili). Il mito di una nazione martire, come in Polonia e Ungheria, impedisce ai cechi di scrutare nelle zone d’ombra del passato: la collaborazione del regime di Emil Hácha con i nazisti all’inizio dell’occupazione tedesca, la deportazione degli ebrei, l’espulsione dei tedeschi dai Sudeti alla fine della guerra, l’infatuazione per il comunismo staliniano, i compromessi e le delazioni successive al 1968, impostura e menzogna assurte a stili di vita.

Il totalitarismo non ha risparmiato nulla e nessuno. È ancora troppo presto (o troppo tardi) per riaprire queste piaghe, e forse è meglio ignorarle. Tuttavia, non credo che la Repubblica Ceca seguirà la strada illiberale della Polonia di Jarosław Kaczynski e dell’Ungheria di Viktor Orbán. Il sistema costituzionale è stato pensato appunto per evitare l’egemonia di un unico partito. Atei (la Repubblica Ceca è il Paese più ateo al mondo), pragmatici e scettici, come l’eroe nazionale, il buon soldato Švejk, non vedo come i cechi potranno essere mai arruolati in una crociata alla polacca (Dio, famiglia, patria) nè in un grande movimento etno-kitsch come quello che Viktor Orbán vuole imporre all’Ungheria. Ma con i loro vicini dell’Europa centrale, i cechi condividono una concezione organica della nazione e dei traumi del XX secolo: la sovranità è il loro bene più prezioso, di cui non hanno potuto godere che per soli vent’anni, tra le due guerre mondiali, e successivamente alla caduta del Muro di Berlino, dopo secoli di occupazione per mano di grandi imperi. I cechi vogliono approfittare della libertà ritrovata, ora che si sono sbarazzati della tutela di Mosca, e respingono le ingerenze di Bruxelles (o di Berlino). Ma respingono con forza ancora maggiore le quote di migranti e la società multiculturale che l’Occidente vuole imporre loro (nove cechi su dieci vedono negativamente l’immigrazione e l’islam). Si accontentano dei fondi strutturali europei e della protezione della Nato. Se i Paesi dell’Europa centrale non vogliono scandagliare seriamente il loro passato né lanciarsi in una nuova avventura europea, è perché non si fidano della storia. Cinquant’anni dopo la Primavera di Praga e l’invasione sovietica, i cechi non aspirano ad altro che a essere lasciati in pace da tutti i potentati immaginabili, per poter semplicemente badare ai loro affari.
(traduzione di Rita Baldassarre)

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