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Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.06.2018 Lo Schindler del calcio che sfidò le SS
Commento di Francesco Cevasco

Testata: Corriere della Sera
Data: 01 giugno 2018
Pagina: 41
Autore: Francesco Cevasco
Titolo: «Lo Schindler del calcio che sfidò le SS»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/06/2018, a pag. 41, la breve "Lo Schindler del calcio che sfido le SS".

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Géza Kertész

Che occuparsi del gioco del calcio non sia soltanto inseguire con lo sguardo ventidue ragazzi che corrono in mutande dietro a un pallone è già ampiamente dimostrato da grandi scrittori di tutto il mondo. Che il gioco del calcio e i suoi protagonisti, calciatori, allenatori, abbiano avuto un ruolo nelle vicende storiche un po’ meno. Poi ci sono libri come questo, Niente è stato vano. Il romanzo di Géza Kertész, lo Schindler del calcio (Meravigli edizioni, pagine 144, e 15). Lo ha scritto Claudio Colombo («Corriere d’Informazione», «Gazzetta dello Sport», «Corriere della Sera», oggi direttore di «Il Cittadino» di Monza). Si comincia a leggerlo per seguire la traccia di un non-grandissimo giocatore di calcio ungherese «emigrato» in Italia con la famigliola per diventare allenatore. E lo diventa. Anche in questo secondo mestiere non sarà una superstar (in serie A allenerà Roma e Lazio senza fare sfracelli).

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La copertina (Meravigli ed.)

Ma è il più bravo a conquistare promozioni a raffica dalle serie minori. Siamo negli anni Venti e la nostra storia durerà fino a una data tristemente precisa: il 6 febbraio 1945. Se restiamo agli anni Venti e Trenta e ai primissimi Quaranta, Kertész può essere più che soddisfatto. E lo è: dopo una breve parentesi di allenatore-giocatore (lo Spezia) fa soltanto il trainer. È bello, alto, elegante, poliglotta, simpatico. Piace ai presidenti delle squadre di calcio, piace ai tifosi e i calciatori si fidano di lui anche se è un po’ troppo esigente: sarà lui a inventare «il ritiro», cioè a ritrovarsi in un albergo alla vigilia delle partite importanti senza mogli, fidanzate, amici, distrazioni di ogni genere. Intanto arriva, cresce, si allarga il fascismo. Kertész non si turba più di tanto. Come la maggioranza dei calciatori e degli allenatori si sente «apolitico». Allenerà, in un momento di scarso successo, persino il «Littorio», squadretta fascista di serie C. Ma... Ma arriva il ’43. A Roma, dove Kertész vive, piovono troppe bombe degli Alleati per campare tranquilli. Lui pensa alla famiglia e s’illude che tornare nella sua Budapest sia ritrovare la pace. Oltretutto, con la fama che s’è fatta in Italia, ha già un ingaggio per una panchina importante, quella dell’Újpest, uno dei club più prestigiosi della capitale. E anche qui c’è un altro ma... Ma Budapest non è la città del ricordo, della pace, della tolleranza che Géza conservava in mente. Sono arrivati i nazisti, nella triste primavera del ’44. Dopo una vita dedicata al calcio, il trainer capisce che la sua vita può avere un senso soltanto se si oppone, per quello che può e può molto, alla barbarie. Entra in un gruppo clandestino chiamato Dallam (in italiano Melodia, nome dolce rispetto al suono violento della crudeltà nazista). Arriva al punto di travestirsi da ufficiale tedesco per salvare la vita agli ebrei perseguitati. Arriva a portarsi a casa una coppia di giovani ricercati per la sola colpa di esistere. Arriva al punto di scommettere una vita — la sua — per salvarne mille altre. Come andrà a finire, in quel 6 febbraio ’45, si può leggere nel libro Niente è stato vano. Abbiamo cominciato a parlare di calcio. Abbiamo finito a parlare di storia. Merito di un libro che ha saputo tenere insieme calcio e storia.

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