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Corriere della Sera Rassegna Stampa
16.05.2018 Gaza: ecco chi disinforma
Davide Frattini, Khaled Diab, La Repubblica

Testata: Corriere della Sera
Data: 16 maggio 2018
Pagina: 1
Autore: Davide Frattini - Khaled Diab
Titolo: «Gaza seppellisce i suoi 60 morti - L'illusione di scrivere la storia»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/05/2018, a pag. 10 con il titolo "Gaza seppellisce i suoi 60 morti" il commento di Davide Frattini; a pag. 11, con il titolo "L'illusione di scrivere la storia", il commento di Khaled Diab.

Il Corriere della Sera alterna giorni in cui pubblica resoconti e analisi equilibrate su Israele, come ieri, e giorni in cui la cifra comune dei contributi pubblicati è la disinformazione contro Israele, come oggi. Il pezzo di Frattini riprende tutti i luoghi comuni sui "poveri palestinesi", anche se nel finale dà voce anche a gazawi che imputano a Hamas le responsabilità della propria condizione. Molto peggio fa Khaled Diab, con un commento unidirezionale contro Israele che pone sullo stesso piano i terroristi di Hamas, il governo israeliano e gli Usa di Donald Trump. Le violenze scatenate al confine di Gaza vengono definite "manifestazioni pacifiche senza armi" e si sottolinea la "repressione" di Israele.

Anche sulla REPUBBLICA di oggi prevalgono i toni patetici, con foto e titoli che mettono in primo piano i bambini e nascondono i terroristi di Hamas. Nulla di nuovo sul quotidiano romano.

Ecco gli articoli:

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Davide Frattini: "Gaza seppellisce i suoi 60 morti"

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Davide Frattini

Abu Mohammed sta seduto a casa e aspetta di essere chiamato. Sperando che non succeda, sapendo che succederà. Al buio perché l’elettricità a Gaza più va che viene, al buio perché è stanco delle luci fluorescenti negli obitori. Da 45 anni ripete gli stessi gesti, da quando ha deciso di volersi dedicare ai morti. Le mani ancora forti diventano delicate mentre avvolge i corpi nel lenzuolo di lino bianco. In queste sei settimane di proteste ha preparato per la sepoltura — senza detergerli «perché gli ammazzati devono raggiungere Dio con il loro sangue» — tanti dei palestinesi uccisi, i caduti sono 108, oltre 60 solo lunedì. Racconta di aver partecipato ai cortei della Grande marcia del ritorno, lui che è 9 anni più vecchio dello Stato d’Israele, arrivato al campo rifugiati di Jabalya da bambino, la famiglia è originaria di Ashdod, pochi chilometri più a nord sulla costa. Dall’altra parte di quella barriera che i dimostranti hanno cercato di abbattere e l’esercito israeliano — come aveva minacciato Avigdor Liberman, il ministro della Difesa — «ha protetto con ogni mezzo», i tiratori scelti appostati sui terrapieni. Ieri avrebbe dovuto essere la giornata più importante, i palestinesi commemorano la Nakba, la catastrofe, così chiamano la nascita di Israele settant’anni fa, quando Abu Mohammed ha dovuto lasciare il suo villaggio. È stata invece la giornata dei funerali, poche centinaia di persone arrivano agli accampamenti vicino al confine, dove gli elettricisti smontano gli altoparlanti che in questi giorni hanno incitato i gruppi a marciare contro il reticolato. Ma ieri ci sono stati comunque due morti e il presidio va avanti. La prossima data chiave dovrebbe essere il 5 giugno: lo stesso giorno del 1967 gli israeliani hanno catturato la Striscia allora controllata dagli egiziani. Adesso i tedeschi e i britannici pretendono «un’inchiesta indipendente». La stessa richiesta al Consiglio di sicurezza dell’Onu è stata bloccata dal veto degli americani, che riconoscono agli israeliani «il diritto di difendere il loro confine». Le proteste di lunedì sono coincise con l’inaugurazione dell’ambasciata a Gerusalemme, Nikki Haley, l’ambasciatrice all’Onu, dice «non c’è nessun legame, Hamas incita alle violenze da anni». L’Autorità palestinese, che ormai non considera più la Casa Bianca un mediatore imparziale, ha così deciso di richiamare l’ambasciatore da Washington. I portavoce dell’esercito rispondono alle accuse — Amnesty International ha definito «aberrante l’uso sproporzionato della forza militare contro civili disarmati» — spiegando che dei 60 palestinesi uccisi 14 stavano cercando di assaltare la barriera o lanciare molotov e ordigni improvvisati contro i soldati, altri 24 appartenevano alle brigate fondamentaliste: considerano Hamas responsabile e un ministro israeliano minaccia di eliminarne i capi. Riprendono le fonti mediche a Gaza per smentire che la piccola Layla, 9 mesi, sia morta dopo aver respirato i gas lacrimogeni, avrebbe avuto una malattia congenita. Le violenze riaprono la frattura diplomatica tra Israele e la Turchia, che espelle l’ambasciatore da Ankara. Il governo di Benjamin Netanyahu risponde fermando le importazioni di prodotti agricoli turchi e rimandando a casa il console a Gerusalemme. Il battibecco è anche tra il presidente Erdogan che accusa gli israeliani di «terrorismo» e «genocidio» e il premier Netanyahu: «Non ci venga a dare lezioni di morale». Che Guevara, come lo chiamano, è rimasto nella sua stanza a studiare gli scritti di Nelson Mandela perché i nove giorni in cella, i cappelli rasati dalla polizia non gli hanno tosato via la convinzione che il problema sia Hamas. Per questo non è andato alle manifestazioni e ha organizzato una rete che — assicura — raccoglie 11 mila giovani, lui di anni ne ha 25: «Non andiamo a farci ammazzare per i fondamentalisti — spiega Mohammed al Tauli, il suo vero nome —. Sono responsabili della miseria in cui viviamo».

 

 

 

Khaled Diab: "L'illusione di scrivere la storia"

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Khaled Diab

«Ricordatevi di questo momento, stiamo scrivendo la storia». Con queste parole il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accolto il pubblico di politici e funzionari che ha assistito all’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme, mentre a meno di cento chilometri di distanza i cecchini israeliani colpivano a morte decine di palestinesi disarmati che protestavano a Gaza, ferendone altre centinaia. «Presidente Trump, nel riconoscere la realtà della storia, lei ha scritto la storia». Evidentemente Netanyahu ha fissato l’asticella della storia molto in basso. Donald Trump si è limitato a far installare una nuova targa con sopra scritto «ambasciata» al consolato americano di Arnona, a Gerusalemme Ovest, farla svelare dalla figlia Ivanka e — voilà! — «la storia» è fatta. Il modus operandi ricorda da vicino le tecniche di Trump in veste di imprenditore: sbatti giù un cartello con il tuo nome su un grattacielo o un casinò, e subito creerai l’illusione, come fanno i prestigiatori, di aver operato un cambiamento. Con Trump, che si tratti di affari o di politica, è solo una questione di marchio. L’illusione che Trump abbia scritto la storia è alimentata non solo dai suoi sostenitori, ma anche dai suoi avversari. Questo è dovuto in parte al fatto che «The Donald» è un uomo pericolosamente irresponsabile, e irresponsabilmente pericoloso, ma anche al fatto che offre ai suoi predecessori l’occasione unica di mascherare i propri fallimenti scaricandoli su di lui. Ma non era Trump il presidente americano che è rimasto a guardare mentre Israele si annetteva la città vecchia di Gerusalemme, assieme a larga parte della Cisgiordania, per farne la propria capitale. Né la costruzione degli insediamenti né quella del muro, né la demolizione delle case dei palestinesi e l’espulsione dei suoi abitanti a Gerusalemme Est sono iniziati sotto gli occhi di Trump. Non dimentichiamo inoltre che gli Usa hanno riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele da un quarto di secolo, dal Jerusalem Embassy Act del ’95. Pertanto il gesto di Trump non rappresenta una notizia. Questo spiega come mai l’inaugurazione dell’ambasciata Usa non abbia sollevato particolari reazioni da parte degli abitanti palestinesi della città, non per indifferenza davanti alla loro tragica situazione, quanto piuttosto perché questo simbolo minore non va a incidere, se non in modo simbolico, sullo stato di fatto. Persino quella che è stata definita la Grande marcia del ritorno a Gaza, per commemorare sette decenni di espropriazione e oppressione, anche se è stata rifocalizzata su Gerusalemme questa settimana, riguarda solo visivamente e simbolicamente la Città santa. Le manifestazioni di lunedì, durante le quali gli israeliani hanno ucciso 60 palestinesi disarmati e ferito altre centinaia, avevano come obiettivo il blocco israeliano di Gaza e le indicibili sofferenze da esso causate alla popolazione palestinese. Ed è questo massacro di manifestanti e l’incarcerazione di un intero popolo che dovrebbero essere oggetto della nostra indignazione. Mentre il trasferimento dell’ambasciata non cambia nulla di sostanziale, la presenza di Donald Trump alla Casa Bianca e la fine della finzione che l’America possa ergersi a mediatore della crisi, tantomeno a mediatore imparziale, hanno galvanizzato il governo di estrema destra e i suoi sostenitori in Israele, che si sentivano le mani legate sotto il suo predecessore. Malgrado tutto, persino durante queste ore oscure e travagliate, molti palestinesi di Gerusalemme si aggrappano a uno spiraglio di speranza, che li risollevi dalla disperazione in cui vivono. «Abbiate speranza, e fiducia, non nei governi, ma nella gente», auspica dalla sua pagina Facebook Mahmoud Muna, della celebre libreria Educational Bookshop a Gerusalemme Est. «La nostra libertà non aspetta il permesso da nessuno, arriverà senza bussare alla porta, e un giorno sarà qui». Da anni invoco anch’io la pace tra i popoli da raggiungere attraverso la lotta per i diritti civili e l’uguaglianza, perché la soluzione dei due stati è stata ormai scartata e l’America non porterà certo la fine del conflitto, il governo israeliano non porterà la pace e né Fatah né Hamas porteranno la pace. Porteranno la pace solo coloro che amano la pace in Israele e in Palestina, quando sapranno unire le loro forze. Solo allora ci sarà una possibilità.
(traduzione di Rita Baldassarre)

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