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Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.04.2018 Breve storia dei marrani
Commento di Paolo Mieli

Testata: Corriere della Sera
Data: 24 aprile 2018
Pagina: 42
Autore: Paolo Mieli
Titolo: «Il segreto dei marrani»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/04/2018, con il titolo "Il segreto dei marrani" l'analisi di Paolo Mieli.

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Paolo Mieli

Nel 1160 la famiglia ebraica di Maimonide abbandonò Cordova per sottrarsi alle persecuzioni degli Almohadi, attraversò lo stretto di Gibilterra e si stabilì a Fès. «Se è chiaro il motivo di quella precipitosa partenza», osserva Donatella Di Cesare nello straordinario libro Marrani. L’altro dell’altro (in uscita oggi da Einaudi), «meno chiara è la scelta della meta». Una conversione forzata all’islam? Non si può escludere. Anzi, è probabile. Cinque anni dopo, il viaggio di quel nucleo familiare riprese, li portò ad Alessandria d’Egitto e poi ad al-Fustat, nella parte urbana del Cairo. Maimonide divenne in seguito medico alla corte del Saladino, nel contempo si affermò non solo come un’importante autorità rabbinica della diaspora, ma anche come un grande filosofo. La sua Guida dei perplessi, rivolta a un’illuminata minoranza, «suscitò però essa stessa perplessità», spiega Donatella Di Cesare. Nonostante ciò, quell’intellettuale errante lasciò tracce profonde e durature dal momento che «con quasi profetica lungimiranza aveva saputo cogliere le delicate questioni della sua epoca». Quali? Nella Lettera sull’apostasia, Maimonide fu esplicito: esortò i suoi correligionari a sottrarsi al martirio che — sosteneva — era da considerarsi «non come una norma ebraica», bensì «un gesto eccezionale», «un sacrificio che non poteva essere richiesto alla moltitudine». Alternativa? Se minacciati di morte, agli ebrei non restava, secondo Maimonide, che optare provvisoriamente per la dissimulazione. Dopodiché, «continuando a osservare in segreto quanti più precetti possibile», avrebbero dovuto «abbandonare ogni possesso e camminare giorno e notte», fino a quando non avessero trovato un luogo sicuro in cui poter tornare alla loro religione. Il filosofo suggeriva, con queste indicazioni, «la possibilità di interpretare la conversione come un’emigrazione interiore». «Emigrazione interiore» che «in nessun caso avrebbe dovuto impedire il ritorno».

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Una sinagoga trasformata in chiesa a Toledo

Con qualche secolo di anticipo, Maimonide affrontava il tema dei marrani, i conversos, i cristianos nuevos (per distinguerli dai cristianos viejos che cristiani lo erano davvero, non perché costretti a diventare tali), ovvero gli ebrei della penisola iberica e dei domini spagnoli che, nel Quattrocento, avrebbero accettato di convertirsi al cristianesimo per sottrarsi all’esilio o alla morte. La fase più cruenta dell’offensiva antiebraica era iniziata il 4 giugno 1391, allorché una folla inferocita, capeggiata dall’arcidiacono Ferran Martinez, aveva fatto irruzione nella juderia di Siviglia e l’aveva devastata, uccidendo quattromila israeliti. Il rabbino Hasdai Crescas raccontò in seguito che, posti di fronte al dilemma «O la croce o la morte!», pochi dei suoi avevano «santificato il Nome», mentre molti avevano «violato il Patto». Avevano cioè accettato il battesimo. La stessa scena si era ripetuta poi a Cordova, Toledo, Madrid, Ciudad Real, Burgos (dove il rabbino capo Shlomo Halevi, prima ancora che iniziassero le aggressioni, si convertì e cercò di portare con sé tutta la comunità; prese il nome di Pablo de Santa Maria e qualche anno dopo tornò in città come vescovo). Ma anche a Valencia, Gerona, Barcellona. Praticamente dappertutto nei territori che erano possedimento della Corona di Castiglia, Aragona e Navarra. È stato ipotizzato che dei seicentomila israeliti residenti in quella parte della Spagna, un terzo sia stato ucciso; gli altri, per metà, si sottrassero alle persecuzioni con la conversione, mentre circa duecentomila rimasero «fedeli al Patto». In realtà, però, molti dei «convertiti», erano rimasti ebrei nell’intimo, talché erano mal giudicati sia dai correligionari che avevano resistito alla conversione, sia dai «vecchi cristiani» che li guardavano con diffidenza. Vivevano di conseguenza un «triplo esilio»: come ebrei erano ancora nella diaspora; come conversos erano esclusi dalla vita ebraica; come «ebraizzanti» sopravvivevano in un ambiente sempre più ostile: «Non abbandonarono la speranza», scrive Di Cesare, «che con il tempo cedette, però, a un’amara nostalgia per un passato immemoriale». Che cosa furono a questo punto i marrani? Israeliti costretti all’«emigrazione interiore», che restavano tuttavia differenti, inassimilabili, «ereditando l’alterità dell’ebreo». Eppure ebrei non erano più, «anzitutto agli occhi degli ebrei». La «nuova alterità del marrano non fu allora solo interna; già rispetto all’ebreo, l’altro per eccellenza, il marrano diventò l’altro dell’altro». Il termine «marrano» ebbe fin dall’inizio un’accezione negativa. Non se ne conosce neanche l’esatta origine: è stato ipotizzato che venisse dal castigliano marrar (errare), o dall’aramaico marantha (persona scomunicata), dal gioco di parole dell’ebraico mar (amaro) e anus (convertito), dall’arabo mura’in (ipocrita), barran (straniero) o mahram (cosa proibita).

In Spagna, ricostruisce Donatella Di Cesare, era usata «come sinonimo di maiale per stigmatizzare, schernire, ingiuriare i conversos; l’insulto che doveva circolare già prima, fu in seguito impiegato per gli ebrei battezzati a forza, che restavano perfidi e infidi». Un marrano è «un maldito, sin fe, un maledetto, senza fede». Questo uso spregiativo della parola andò diffondendosi al punto che nel 1380 Giovanni I di Castiglia lo vietò, pena una multa o, addirittura, la reclusione. Ma, osserva l’autrice del libro, «se leggi e documenti ufficiali, dove il termine non ricorre, preferiscono parlare di conversos o cristianos nuevos, è solo perché, quando proclamano lo sterminio simulano la neutralità». Si diffuse invece tra cronisti, storici filosofi e scrittori anche fuori dai confini spagnoli. Ne parlano Niccolò Machiavelli nel Principe e Ludovico Ariosto nell’accezione di traditore, ribaldo, spergiuro. «Vil marrano» è l’ingiuria che il condottiero Francesco Ferrucci rivolge al capitano di ventura Fabrizio Maramaldo prima di essere ucciso. Presto iniziò una «diaspora marrana» che si protrasse per tre secoli raggiungendo il culmine nel 1680. C’erano conversos sulle caravelle di Cristoforo Colombo tanto che, secondo la Di Cesare, si può sostenere che «la scoperta dell’America fu impresa in gran parte marrana». Alcuni raggiunsero Amsterdam dove ridivennero ebrei: Rembrandt li dipinse raffinati, malinconici, fieri come il «rabbino infelice» Maenasseh ben Israel, autore del libro La speranza di Israele (1650). Ferrara fu poi una meta di questo genere di profughi e successivamente Livorno dove molti di loro ripresero l’identità di ebrei. Furono nuovi ebrei passati per l’esperienza marrana. Fu poi il filosofo Baruch Spinoza che «elevò la resistenza dei marrani a categoria filosofica» e «introdusse il marranismo nel pensiero della modernità occidentale». Quegli ebrei espulsi dalla Spagna e quei marrani fuggiti in seguito, nel corso della «grande dispersione», furono «loro malgrado estromessi dal Medioevo e proiettati in un’era nuova» Il marrano fu sempre esposto a nuove persecuzioni. Era portato a difendere il diritto alla «segretezza», intuiva che «solo lo spazio inaccessibile del segreto può contrastare il potere totalitario della pubblicità che insidia la democrazia». Talché era naturalmente indotto ad osservarsi mentre gioca «il ruolo che gli è assegnato nello spazio pubblico». Sospinto a mentire, a fingere, «impara a presentire l’ipocrisia, fiutare l’inganno, sciogliere le contraddizioni, apprende a captare la verità delle menzogne altrui». Cripta e decripta senza sosta: «Sottigliezza, sagacia, accortezza sono le doti che deve coltivare; non solo per coprire le sue intenzioni, ma per smascherare quelle altrui». È consegnato ad una «inesausta diffidenza». Vive «nel timore costante di tradirsi». È così che la dissimulazione «inaugura l’introspezione». Il «mirar por dentro» (Baltasar Gracián) corrisponde ad un guardare al proprio interno «per appurare che nulla possa essere intercettato dall’altro, per essere sicuri di non venire colti di sorpresa». La conoscenza di sé «è la via per celarsi meglio agli occhi altrui». Ed è un sé «sfaccettato che, per fugare i sospetti, è divenuto sfuggente, non si lascia più identificare». Di qui «nasce la modernità di cui il marranismo è il preludio». I cristiani — dicevamo — non credono alla genuinità della loro conversione e li contrastano invocando la purezza del sangue (la limpieza de sangre), «ben più importante della purezza di fede». Ed è così che il razzismo moderno ha un suo primo «certificato» il 5 giugno 1449, allorché a Toledo viene promulgata la Sentencia-Estatuto, il documento sulla purezza del sangue che, secondo Di Cesare, «contiene in sé tutte le leggi razziali a venire». Nel testo si chiede fra l’altro che ai convertiti di «origine ebraica» venga impedito l’accesso a cariche municipali o ecclesiastiche, e a quegli uffici da cui potrebbero recare danno ai cristiani di «pura origine». La limpieza divenne un’ossessione dopo che, il 31 luglio 1492, l’ultimo ebreo fu costretto a lasciare la Spagna. Un’ossessione che induceva la comunità spagnola tutta a dare la caccia «agli ebrei rimasti sotto mentite spoglie». I quali però riescono a sopravvivere facendo ricorso a qualsiasi stratagemma: spergiuro, falsa confessione. Inseguiti dagli inquisitori con la loro «volontà impietosa di identificare, sviscerare, assimilare», i marrani «fugano i sospetti e trattengono il segreto». Battono le strade della dissimulazione, della discrezione, dell’occultamento piuttosto che quella del martirio. In questo, osserva l’autrice, il marranismo diviene «l’opposto di ogni fondamentalismo». La religione marrana si distingue dall’ebraismo non per le «aggiunte» ma per le «sottrazioni»: sulla via della dissimulazione, «nel dubbio era meglio astenersi», sicché divieti e proibizioni ebbero il sopravvento. Nel pericolo di essere scoperti, si moltiplicarono i digiuni. E, dal momento che era diventato quasi impossibile celebrare le feste religiose, doveva imporsi un’atmosfera «di profonda mestizia, di perdita, di sconforto».

Credenze, pratiche, usi, persino ricette furono conservati negli editti pubblicati (per vietarli) dall’Inquisizione, cioè «grazie allo zelo puntiglioso del Sant’Uffizio» che diventò, suo malgrado, «una specie di scuola di ebraismo». Senonché, essendo le informazioni spesso imprecise, «gli inquisitori finirono per essere anche innovatori, contribuendo allo sviluppo di una peculiare religione». Il punto d’approdo di questa esposizione sono le somiglianze delle condizioni in cui si sono trovati gli ebrei che cercarono di sopravvivere alle persecuzioni spagnole e quelli che si trovarono alle prese con la Germania nazista. E soprattutto il loro complesso rapporto con la storia, la memoria, il ricordo. Per i marrani, in particolare, «il ricordo assume un rilievo straordinario»: è «l’unico legame per quei segregati, l’unico anello di una tradizione che altrimenti potrebbe finire». Ma come trasmettere il ricordo se i riti sono vietati, se sono proibiti i testi che narrano gli eventi da ricordare? Il «segreto del ricordo diventa il ricordo del segreto» (e non è un gioco di parole). Che cosa vuol dire segreto? E in che modo si può ricordarlo, o meglio, condividerlo? «Inviolabile, inaccessibile, refrattario alla luce, eterogeneo alla parola, estraneo all’apparire», scrive Donatella Di Cesare, «il segreto allude a una resistenza irreversibile». Circonfuso «da un’aura esoterica, rischia però, in una visione banale, se non malevola, di essere preso per un sapere occulto». Come se i marrani fossero una società segreta e non piuttosto una «comunità del segreto». Segreto che «difeso nel più intransigente silenzio, è sopravvissuto ad ogni archivio» proprio perché «non è archiviabile». «Nascosti, esiliati, dispersi, in una costellazione del disastro, separati da una doppia estraneità, resistono legati dal ricordo del loro segreto, di cui non possiedono più la chiave, inaccessibile e alla fine sconosciuto, un segreto del segreto, che non esitano a testimoniare». Un libro davvero esemplare.

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