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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.04.2018 David Grossman partecipa alla demonizzazione di Israele
E parla di 'occupazione' e 'apartheid'

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 aprile 2018
Pagina: 15
Autore: David Grossman
Titolo: «Israele sia una casa non una Fortezza (ricordando Uri)»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/04/2018, a pag. 15, con il titolo "Israele sia una casa non una Fortezza (ricordando Uri)", il discorso di David Grossman.

David Grossman si dilunga su generici discorsi sulla pace e la convivenza tra Israele e arabi palestinesi, dimentica però l'esistenza del terrorismo, che vuole la distruzione dello Stato ebraico e lo sterminio dei suoi abitanti.
Quello che è più grave, però, è che Grossman parli di "occupazione" e "apartheid nei territori occupati", dimenticando che si tratta di una regione contesa in cui non vige alcuna forma di discriminazione etnica come quella presente per decenni in Sud Africa.

Partecipando alla demonizzazione di Israele proprio nell'anniversario dei 70 anni dalla fondazione dello Stato, Grossman offre una valida collaborazione agli odiatori dello Stato ebraico. Non basta certo che Grossman si dichiari sionista per cancellare tutto questo.

Ecco l'articolo:

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David Grossman

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Tanti volti dei ragazzi israeliani che difendono il proprio Paese

La mia famiglia ha perso Uri in guerra, un ragazzo dolce, allegro e in gamba. Ancora oggi, quasi dodici anni dopo, mi è difficile parlare di lui in pubblico. La morte di una persona cara è anche la morte di una cultura privata, personale e unica, con un suo linguaggio speciale e i suoi segreti. Tutto questo è svanito per sempre, e non ritornerà mai più. (...) È difficile separare il ricordo dal dolore. È doloroso ricordare, ma è ancor più spaventoso dimenticare. E quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. Ma ho scoperto che ogni volta che sono tentato dalla rabbia e dall’odio, immediatamente mi accorgo di smarrire il contatto quotidiano con mio figlio, che ancora sento vivere in me. (...) Io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare. Persino i nemici storici, come gli israeliani e i palestinesi, possono stringere tra di loro un rapporto che nasce dal lutto, e a causa di questo. (...) È anche il nostro modo non solo di piangere la perdita insieme, bensì anche di contemplare il fatto che non abbiamo fatto abbastanza per scongiurarla.

(...) Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione. Io spero che potremo celebrare questa ricorrenza per molti anni ancora, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro che tutti si sentiranno ugualmente a casa propria. Come definire la casa? La casa è il luogo i cui muri — i cui confini — sono chiari e pattuiti. La cui esistenza è stabile, inoppugnabile e serena. (...) I cui rapporti con i vicini sono basati su norme concordate. Un luogo che proietta un senso di futuro. Noi israeliani, persino dopo 70 anni (...) non siamo ancora arrivati a quel punto. Non siamo ancora a casa. Israele è stato fondato per far sì che il popolo ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere una casa. E oggi, 70 anni dopo, malgrado tante meravigliose conquiste nei più svariati campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto a una fortezza, ma non ancora a una casa. La strada per risolvere l’immensa complessità dei rapporti che intercorrono tra Israele e i palestinesi può riassumersi in una formuletta: se i palestinesi non hanno una casa, nemmeno gli israeliani potranno averne una. Ma anche l’opposto è vero: se Israele non ha una casa, nemmeno la Palestina sarà casa per il suo popolo.

(...) Quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni, e occupa le sue terre, e mette in piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una casa. E quando il ministro della difesa Lieberman tenta di impedire ai palestinesi costruttori di pace di partecipare a un incontro come questo nostro, Israele non è la mia casa. (...) E quando il governo israeliano è pronto a mettere a rischio la vita dei richiedenti asilo e di deportarli in luoghi a loro ignoti, forse incontro alla morte, Israele è molto meno di una casa ai miei occhi. E quando il primo ministro diffama e accusa le organizzazioni per i diritti umani Israele diventa ancora meno di una casa. Per tutti. (...) Israele ci fa soffrire, perché è la casa che vorremmo avere. Perché riconosciamo quanto sia bello per noi avere uno Stato, e siamo orgogliosi delle sue scoperte e conquiste in tantissimi campi. (...) Ma soffriamo nel vedere fino a che punto questo ideale è stato snaturato. (...) Ci è consentito sognare. Vale la pena combattere per Israele. E auguro le stesse cose anche ai nostri amici palestinesi: una vita di indipendenza, pace e libertà, nella costruzione di una nuova nazione. Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: «Una nazione libera nella nostra terra». E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli.

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