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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.03.2018 Quando l'Iran si chiamava Persia: intervista a Farah Diba
Enrica Roddolo incontra a Parigi l'ex imperatrice

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 marzo 2018
Pagina: 53
Autore: Enrica Roddolo
Titolo: «Democrazia laica per il mio Iran»

Riprendiamo dsal CORRIERE della SERA/LETTURA di oppgi 18/03/2018, a pag.53 con il titolo "Democrazia laica per il mio Iran"  l'intervista a Farah Diba di Enrica Roddolo

Quando un colpo di stato mandò in esilio il re dell'Egitto Faruk, a un giornalista italiano che lo intervistava a Roma, disse " fra non molti anni ci saranno solo più cinque re, la regina Elisabetta d'Inghilterra e i 4 re di picche, cuori, quadri e fiori". Il risulato in Iran è quello che conosciamo.
 Farah Diba, ex imperatrice di Persia, si racconta in una intervista sincera, per questo interessante.

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Enrica Roddolo                                Farah Diba

"Perché io? Anni dopo le nozze lo domandai a mio marito, lo Shah. Rispose: "Mi sei piaciuta perché eri vera, autentica". L'appuntamento con la donna che è stata imperatrice di Persia, nella sua casa di Parigi affacciata sulla Senna, blindata da codici di accesso di sicurezza, è per le 16.3o di un pomeriggio di pioggia all'inizio di marzo. Nessun gioiello per la donna che sedeva al flanco dello Shah sul leggendario Trono del Pavone, solo una spilla a forma di Iran, nei colori della bandiera iraniana.
Come vi siete conosciuti, Altezza?
«Studiavo architettura a Parigi e abitavo nella Cité universitaire a sud della capitale, ma non nel padiglione degli studenti iraniani, non c'era; in quello olandese. Ricordo giornate sempre piene: lezioni, disegni da realizzare, visite ai musei... Il primo incontro con lo Shah avvenne all'ambasciata iraniana: quando visitava Paesi stranieri incontrava sempre alcuni studenti iraniani all'estero. Ci fu un ricevimento, avevo comprato di corsa un abito nuovo. Ricordo che avevo imparato a fare l'inchino. Lui scambiò qualche parola con gli invitati  e quando si avvicinò mi chiese: "Che cosa studi a Parigi?". Era sorpreso quando dissi che frequentavo architettura. Allora c'erano davvero poche donne architetto, non solo a Teheran; non erano studi molto comuni per una ragazza». Farah Diba sorride, gli occhi si accendono di luce: «Poi mi dissero che lui mi aveva seguita con lo sguardo mentre uscivo dalla stanza».
Che cosa la conquistò dello Shah?
«Ii sorriso, bellissimo. Ma i suoi occhi erano tristi».
Quando le chiese di sposarla? Quel sì, il 21 dicembre 1959, fece il giro del mondo. Indossava un abito di seta firmato Yves Saint Laurent per Dior, sul suo capo una corona di brillanti da due chilogrammi.
«Nel 1959 ero in vacanza a Teheran e il genero dello Shah, che aveva sposato la sua prima figlia, la principessa Shanaz (nata dalle prime nozze di Reza Pahlevi con Fauzia, sorella di Faruk d'Egitto, ndr), mi invitò a casa sua. Al pomeriggio, stavamo bevendo il tè, arrivò lo Shah. Iniziò a parlare con me, gli raccontai la mia vita di universitaria a Parigi. Incominciammo a vederci, e una sera, sempre a casa di Shanaz, quando tutti si erano allontanati, mi disse: "Sono stato sposato due volte e sfortunatamente non ha funzionato. Vorresti diventare mia moglie?". Risposi di slancio: "Oh sì". Allora mi mise in guardia: "Avrai molti doveri da svolgere". Non potevo immaginare quanti...».
La donna amata da Reza Pahlevi, che dopo la Rivoluzione islamica del 1979 ha condiviso il destino dello Shah, oggi mantiene il fascino di ieri: alta, regale, i capelli stretti in una coda da un fiocco di gros grain. Il 14 ottobre compirà 8o anni.
«Bella io? Se guardo le immagini di quand'ero giovane, a 16-17 anni, non lo ero affatto, poi nel tempo credo di essere diventata più raffinata... ed è quel che dicevo sempre a mia figlia Leila, che ora purtroppo non c'è più, lei che non si trovava abbastanza bella. Un giorno mostrai a lei e a una sua amica italiana le mie foto di gioventù e le invitai a fare il confronto con quelle di anni dopo; ricordo la sua amica esclamare: "Miracoloso!". Anche lei era sorpresa del cambiamento, di quanto fossi diventata affascinante».
Parla anche l'italiano?
«A Teheran, quand'ero molto piccola, frequentai per un paio d'anni la scuola italiana, credo gestita da suore italiane e gesuiti, prima di passare alla scuola francese Jeanne D'Arc».
Ricorda qualche parola?
«Oh no, ero piccola e in realtà a scuola insegnavano il francese e il persiano. Per la verità mia madre, Aridah, mi iscrisse lì perché avevano un bel pianoforte, voleva che studiassi musica ma a casa il pianoforte non c'era, e così mi esercitavo su quello della scuola, nel seminterrato. Sono stata fortunata, sono stata cresciuta in modo moderno: mia madre, più di sessant'anni fa, mi fece fare la scout, praticare nuoto, giocare a basket — ero capitano della squadra, numero 1o, come Maradona... e Baggio. Mio figlio Reza, che vive negli Stati Uniti, è un grande appassionato di calcio, ho seguito con lui quella partita ai Mondiali, quei... rigori, vero?».
Sì, erano rigori. Trascorre molto tempo negli Stati Uniti?
«Cerco di trascorrere in America due mesi in primavera e altri due in autunno, per stare accanto ai miei due figli, Reza e Farahnaz... e ai miei quattro nipoti. Questo cagnolino me l'ha regalato mia nipote Noor... il cane che mi ha fatto compagnia per 17 anni è morto tempo fa e non avrei avuto il coraggio di prenderne un altro. Il resto del tempo lo passo qui, a Parigi, vado per gallerie d'arte, coltivo le mie passioni, amo pittura, scultura e musica. Ho ascoltato Pavarotti a teatro, quand'ero giovane a Teheran compravo i dischi di Caruso. Sono affezionata alla Biennale d'arte di Venezia, ho visto l'ultima edizione: spero di tornarci».
Come iniziò ad appassionarsi all'arte contemporanea?
«In realtà, iniziai acquistando arte iraniana, alla prima Biennale di Teheran del 1962. A Teheran c'erano poche gallerie d'arte. E prima che al progetto del Teheran Museum of Contemporary Art lavorai all'idea di un museo del tappeto e un museo per la pittura Qajar, la dinastia (1796-1925) che precedette quella dei Pahlevi (1925-1979). In quegli anni avevamo dato vita a molte attività culturali, le Libraries for children, gratuite, dove insegnare a leggere, dipingere... L'Iran è un Paese di grande cultura e storia, volevo preservare tutto questo patrimonio ma volevo allargare l'orizzonte».
Anche lo Shah amava l'arte?
«No, lui era preso da troppe altre cose. Ma mi ha sempre sostenuta, e molti miei compatrioti venivano da me per chiedermi di parlare allo Shah dei loro progetti culturali e non solo, anche organizzazioni non governative... in quei vent'anni l'Iran fece molti passi avanti sulla strada del progresso. Ancora oggi ricevo email e lettere da artisti iraniani undergróund».
E vero che ha collezionato 1.500 opere... Degas, Picasso, Pollock, Bacon e Warhol? II «Financial Times» ha stimato, anni fa, un tesoro di almeno tre miliardi di dollari?
«Non ricordo quante, tante... sìì».
Avevate le ricchezze del petrolio, s'è detto che la raccolta d'arte sia stata finanziata dalla National Iranian Oil Company. Come ha costruito la collezione? «Il prezzo del petrolio era salito, e i prezzi delle opere in quegli anni erano molto interessanti. Organizzai un comitato nel mio ufficio, prendevamo contatto con gallerie, fondazioni: iniziammo dagli impressionisti e continuammo con i moderni e i contemporanei».
Come arrivò la decisione di costruire un Museo d'arte contemporanea a Teheran?
«Andai a una mostra dell'artista Iran Darroudi, una mia coetanea. Mi disse: "Sarebbe bello un museo per raccogliere le opere d'arte iraniana". Ne parlai con l'architetto Kamran Diba, mio cugino, e rilanciai: "Perché riunire in un museo solo opere iraniane? Perché non allargarlo alla creatività di altri Paesi? E anche alla pittura moderna?"».
Meno di due anni dopo l'inaugurazione del museo, nel 1977, la Rivoluzione rischia di travolgere tutto...
«Ero molto preoccupata, ma Mehdi Kowsar, che poi si sarebbe preso cura del museo, stilò una lista con nome e prezzo di tutte le opere custodite nei seminterrati. Disse di volersi occupare dei dipinti come fossero suoi fí gli, di volerli accudire. E quando seppi che volevano sbarazzarsi di un De Kooning che avevo acquistato, mi finsi una studentessa iraniana di arte e chiamai al telefono il museo, ma era venerdì ed era chiuso. Allora chiamai di nuovo il giorno dopo e implorai: "Per favore non scambiate il dipinto". Mi risposero che erano obbligati a farlo. Lo scambiarono con un'opera iraniana, il Libro dei re (Shahnameh), con miniature e dipinti. Vendettero il De Kooning a David Geffen per venti milioni di dollari. Dissero che quel nudo non era islamico — ma io avevo collezionato anche dei Francis Bacon, se è per questo».
Com'erano i suoi rapporti con gli artisti?
«Quando incontrai César, lo scultore francese del Nouveau Réalisme, gli diedi alcuni gioielli, medaglioni, anelli... lui li compresse per farne una delle sue tipiche opere d'arte. Poi Andy Warhol, che venne a Teheran per farmi il ritratto — quel quadro dopo la Rivoluzione fu tagliato a pezzi... E poi Dalí e Chagall, ero così emozionata che gli chiesi di darmi due o tre dei suoi pennelli. E ancora Henry Moore e Paul Jenkins, e l'italiano Pomodoro: gli avevo chiesto tre colonne per l'ingresso del Museo d'arte contemporanea di Teheran, ma dopo la Rivoluzione non fu pagato e lui non consegnò le colonne. Anni dopo, in volo per New York, le riconobbi dal finestrino, con sorpresa... nel giardino del Pepsi Building».
Che cosa si augura per la sua collezione?
«Che sia ben conservata. Dovrebbero creare qualcosa come gli Amici del Metropolitan, per finanziare conservazione e restauro delle opere. Perché il governo di Teheran non ha denaro, o meglio lo spende per altre cose».
Dopo la fuga, il 16 gennaio 1979, siete stati in esilio in Egitto, Marocco, Bahamas, Messico, Usa, inseguiti da una condanna a morte in contumacia. Ha avuto paura?
«Paura? No. Non ho paura di morire. Anni fa scrissero al "Guardian" che mi avrebbero uccisa, allora il ministro degli Interni francese mi diede la scorta. Meglio morire così, colpita a morte, che di cancro... in ospedale». Gli occhi di Farah Diba si riempiono di tristezza, forse è il ricordo degli ultimi giorni con lo Shah malato di cancro. Morirà in Egitto. Sul tavolino una foto di Sadat ha una dedica affettuosa: «Alla mia carissima Farah». Accanto il presidente americano Richard Nixon, e re Baldovino con Fabiola del Belgio. Re Juan Carlos e la regina Sofia, re Mohammed VI del Marocco. In una foto è con re Hussein di Giordania e NoOr».
È in contatto con le altre famiglie reali?
«Oh sì, con lo Shah eravamo stati in visita a Londra dalla regina Elisabetta prima della Rivoluzione, poi sono stata invitata a diversi matrimoni reali. Anche con Beatrice d'Olanda e Margrethe di Danimarca i legami sono saldi».
In un'altra foto è con Alberto di Monaco.
«Grace e Ranieri erano stati a Teheran per le celebrazioni di Persepoli nel 1971. Poi quando andammo via dall'Iran Ranieri fu molto dolce con noi, ci invitò a Monaco ma... la Francia non lo permise. Nessuno voleva inimicarsi Khomeini. Poi ho incontrato il figlio, il principe Alberto, ammiro quanto sta facendo per il suo Paese, per l'ambiente e per lo sport».
I festeggiamenti per i 2.500 anni dell'impero persiano, nel 1971, furono un'esagerata esibizione di ricchezza: una spesa di 200 milioni di dollari, brindisi in calici Baccarat e banchetti firmati dal parigino Maxim.
«Ci criticarono per tante cose... le uova di quaglia con il caviale... ma le celebrazioni erano state volute dallo Shah per far capire al mondo che cos'era l'Iran, la sua ricchezza e la sua storia. Fortunatamente le cose stanno diventando più chiare oggi».
Pensa che adesso la gente abbia capito?
«Sì, molti oggi in Iran sono pentiti di quanto è accaduto. Ricevo spesso lettere ed email dall'Iran, persino ritratti miei e dello Shah, immagino realizzati di nascosto, con un certo rischio. Alcuni vogliono parlarmi e mi dicono: "Grazie di questa telefonata, mi rende felice per tre mesi"; ma sono loro che mi rendono felice. E quando telefono e dico: "Pronto, posso parlare con il signor...", riconoscono la mia voce. Non pronuncio mai il mio nome...».

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Con il figlio

Dopo la Rivoluzione, vi siete sentiti traditi dall'Occidente?

Sospira. «La verità? Il petrolio è stato la nostra benedizione, e la nostra maledizione. Gli affari hanno deciso il corso delle cose. E ora mi sanguina il cuore sapere che nelle vie di Teheran c'è povertà, giovani senza lavoro, bambini che chiedono l'elemosina».
Che cosa ricorda della Rivoluzione quando la folla gridava: «Il tiranno è scappato, il popolo ha vinto»?
«Quanta amarezza, dopo tutto quello che mio marito ha fatto per il nostro Paese... certo c'erano dei problemi, ma tutta quella gente che gridava contro di noi, e invocava Khomeini... Ero preoccupata per i miei figli e non potevo credere che tutta quella gente scendesse in piazza contro il progresso. Le prime manifestazioni per Khomeini furono del 1963, proprio quando lo Shah avviò la White revolution, la riforma agraria che ridistribuì la terra a 2,5 milioni di famiglie, varò programmi sociali e di emancipazione delle donne... ma Khomeini aveva l'aiuto dei comunisti. Mio marito la chiamava la "sacrilega alleanza del rosso e del nero"».
Sta seguendo la rivolta delle ragazze di Teheran che si levano il velo?
«Sì. Mi dà speranza, ora le donne di Teheran sanno che cos'era l'Iran, prima. E sono proprio i giovani, le donne, ad aver sofferto di più: insultate, imprigionate, con leggi che sono state cambiate a loro sfavore. Quando il re mi mise sul capo la corona nel 1967 in cuor mio era come se l'avesse messa sul capo di tutte le donne iraniane: fui incoronata imperatrice e poi anche nominata reggente. Adesso chiunque ti può insultare in strada se non indossi il velo. Ai nostri tempi c'era il diritto alla pianificazione familiare: dopo Khomeini dissero che lo Shah lo aveva fatto per diminuire il numero dei musulmani... certo alcuni hanno avuto una sorta di lavaggio del cervello».
II presidente americano Donald Trump ha preso posizioni più dure verso Teheran. Nutre nuove speranze?
«Ma io non vorrei mai un attacco contro l'Iran. Sono totalmente contraria. Quando Saddam Hussein attaccò l'Iran, mio figlio diede un messaggio chiaro come pilota d'aviazione. Però l'Occidente deve sostenere la voce degli iraniani. Tutti i problemi di fanatismo si sono manifestati dopo le vicende iraniane».
Quale futuro sogna per l'Iran? 
«Vorrei solo che mantenesse la sua integrità territoriale e diventasse una secular democracy, una democrazia laica».
L'imperatrice ferma lo sguardo, come per catturare i sogni di una vita. Si sporge per prendere da un tavolino un blocco di asfalto dalla Green revolution, «me l'hanno mandato dall'Iran, così verniciato è un'opera d'arte. Ma ora lo prende un tè con me? Vorrei farle assaggiare dei dolci che si chiamano come la città di Isfahan. Nicole, il tè grazie».

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