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Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/01/2018, a pag. 49, con il titolo "I bambini ebrei sfuggiti alla Shoah attraverso l’Iran", il commento di Antonio Carioti.
La tecnica di Farian Sabahi è ben nota a chi si occupa di informazione sul Medio Oriente e ai dissidenti 'persiani': presentare una parte della dissidenza accettata dal regime degli ayatollah in modo da far apparire l'Iran teocratico come non troppo liberticida. La realtà, però, è differente. Farian Sabahi quando collaborava con La Stampa manipolò un'intervista a Abraham B. Yehoshua, il quale smentì con una lettera pubblicata sul quotidiano torinese. In quella circostanza Sabahi fu allontanata dalla Stampa.
Sembra impensabile che essere deportati in Siberia possa rivelarsi una fortuna. Ma per i quattro anziani signori intervistati in Israele da Farian Sabahi fu così. Nel settembre 1939 Lewy Yizhak, Ghezi Dau-Gleicher, Elimelech Kanner e il fututo rabbino Iosef Gliksberg abitavano in Polonia (Yizhak addirittura nei pressi dei luoghi dove sarebbe sorto il lager di Auschwitz). E quando arrivarono gli invasori tedeschi, trovarono rifugio nelle regioni che nel frattempo venivano occupate dall’Urss in base al patto di spartizione concluso in agosto tra Mosca e Berlino. Finire sotto Stalin fu la loro salvezza, anche se nell’immediato vennero trasferiti nella gelida Siberia. Era solo la prima tappa dell’odissea raccontata dagli ex ragazzini ebrei all’autrice di origine iraniana, che con le loro testimonianze ha realizzato una video installazione intitolata I bambini di Teheran.
L’installazione, che si avvale come colonna sonora del brano di Ludovico Einaudi Elegy for the Arctic , sarà inaugurata al Museo d’Arte Orientale (Mao) di Torino il 26 gennaio e vi resterà fino all’11 febbraio, poi il 13 febbraio sarà ospitata per una giorno all’auditorium del Museo delle Culture (Mudec) di Milano. Tornando ai giovanissimi profughi, dopo la Siberia fu la volta dell’Uzbekistan, in Asia centrale, dove la situazione climatica era più mite, ma si rivelò grave quella igienica. L’acqua era inquinata e molti rifugiati, tra cui i genitori di Dau-Gleicher, si ammalarono. Poi il Terzo Reich aggredì l’Urss e l’intesa temporanea tra Hitler e Stalin andò in frantumi. Ne scaturì una guerra spietata, con milioni e milioni di vittime, ma per i profughi polacchi fu una svolta positiva. Per via dell’alleanza tra Mosca e Londra (poi anche Washington) che si creò dopo l’invasione nazista, i soldati polacchi prigionieri dei sovietici presero la via dell’Occidente, per andare a combattere al fianco degli angloamericani. Mentre gli ebrei polacchi, grazie all’intervento delle organizzazioni sioniste, furono indirizzati verso la Palestina, che allora era sotto mandato britannico. Non fu un viaggio semplice, anche perché non era sempre piacevole la convivenza con i polacchi cattolici, spesso animati da sentimenti antisemiti. Inoltre dovettero passare per l’Iran, che confinava a nord con l’Urss e a est con i possedimenti indiani della Gran Bretagna (l’attuale Pakistan). E per parecchio tempo rimasero in un campo presso la capitale persiana, soggiorno per via del quale sono noti come i «bambini di Teheran». Infine, nel 1942, l’arrivo nel territorio del futuro Stato d’Israele, l’unico luogo che in quella fase storica potessero chiamare casa, dove in seguito alcuni di loro poterono congiungersi con parenti che non vedevano da tempo e spesso avevano vissuto direttamente le brutali persecuzioni della Shoah. Una vicenda che aiuta a comprendere come l’Iran sia stato terra di accoglienza in un tempo non troppo lontano e perché il progetto sionista di ricostituire uno Stato ebraico dopo tanti secoli abbia avuto successo. Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@corriere.it |
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