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Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.12.2017 Bernard-Henri Lévy inaccettabile: doveva scriverlo prima del voto
Ma al Corsera piace, lo traduce subito

Testata: Corriere della Sera
Data: 22 dicembre 2017
Pagina: 6
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Senza un piano di pace anche un gesto giusto può diventare l'opposto»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi,22/12/2017, a pag.6 con il titolo "Senza un piano di pace anche un gesto giusto può diventare l'opposto" il commento di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

BHL sarebbe attendibile se il pezzo l'avesse scritto "prima del voto". Fare la ramanzina a Trump "dopo" soddisfa soltanto il suo sfrenato bisogno di essere controcorrente. Il Corriere, che lo pubblica ormai raramente, in questo caso è stato solerte, un attacco a Trump fa gola al corrierone pentastellato.

Ecco il pezzo:

Gerusalemme è chiaramente, e da sempre, la capitale di Israele. Avverto tuttavia qualcosa di assurdo, e anche di scandaloso, nell'indignazione planetaria suscitata dal riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di questa evidenza. Da dove scaturisce allora il mio disagio? E due settimane dopo questo annuncio che aspettavo anch'io, e da parecchi anni, come mai mi sento stringere il cuore da una morsa di inquietudine? Trump, innanzitutto. È troppo facile attribuire la dichiarazione al suo carattere opportunistico, quando, messo alle strette da varie sconfitte consecutive, ecco che decide di calare il suo asso per coronare la fine del primo anno di mandato presidenziale. Un amico degli ebrei, è così che si definisce? Paladino e santo patrono di Israele? Scusate, ma io non ci credo affatto. Non penso assolutamente che Trump abbia voluto riconoscere l'esistenza di un sacro connubio tra l'America e Israele, tra la nuova e l'antica Gerusalemme. Non credo che l'animo di Trump sia propenso, in alcun modo, a esaltare la specificità ebraica, a celebrare i paradossi del pensiero talmudico o il gusto dell'avventura che infervorava le gesta ardenti, liriche ed eroiche dei pionieri laici del sionismo. E non credo neppure che i famosi neo evangelici che compongono, a quanto pare, le schiere dei suoi elettori più fedeli, abbiano la più pallida idea di cosa sia, in realta, questo Stato cantato dai poeti, costruito dai sognatori e inseguito ancora oggi, con il medesimo afflato o quasi, da un popolo la cui narrativa nazionale è ricca di miracoli razionali, di speranze sotto il cielo stellato e di slanci logici. E allora? La storia ci insegna che un gesto di amicizia astratto, insincero, slegato dall'Idea e dalla Verità, amputato da quella conoscenza e da quel profondo amore che si chiamano, in ebraico, «ahavat Israel», in fin dei conti non vale poi gran che — o, peggio, la storia ci insegna come, proprio a causa dell'origine tossica delle febbri politiche di cui il popolo ebraico ha dovuto sopportare sin troppo spesso le conseguenze funeste, c'è il rischio che questo gesto, un giorno, si trasformi nel suo opposto. Per non parlare, poi, della precarietà di Israele. Io lo amo, questo paese. Conosco (un po') e amo (infinitamente) la sua avventura così temeraria e bella. Amo il suo universalismo recalcitrante. Amo, nei suoi abitanti, che portino o meno il capo coperto, che siano lettori di Appelfelt, Yehoshua e Amos Oz oppure, al contrario, del luminoso Rav Aaron Steinman, scomparso lo scorso 12 dicembre all'età di 1o4 anni, in ognuno di essi io ammiro la forte convinzione di lavorare per l'umanità e di contribuire al progresso umano grazie alle loro invenzioni e ai loro studi. E amo, ovviamente, Gerusalemme. Amo questa città plurimillenaria, questa città di Giacobbe e di Melchisedech, re di Salem, questa città di Hillel e Shammai, questa città di Gesù, questa città di rabbini scacciati da Roma che vagabondano tra le sue rovine. Ma conosco anche molto bene la sua precarietà. So benissimo che aleggia su questa città un destino sospeso, fatto di poesia, nobiltà e catastrofe. Non credo che un colpo di dadi né un poker politico, non credo che un riconoscimento diplomatico mal congegnato, non negoziato e avulso da ogni tentativo di pace globale e giusta sia in grado di rafforzare ciò che resta, a mio avviso, l'essenziale: la legittimità di Israele, a fianco del futuro stato palestinese, su una terra alla quale la memoria storica del suo popolo, i suoi sospiri e preghiere lo avevano destinato da secoli ma dove esso dimora, ancora oggi, così tremendamente vulnerabile. Il mio pensiero corre, stamattina, agli uomini che quasi settant'anni fa, appena dopo la fine dell'orrore, hanno saputo reinventare, le armi in pugno, lo «stato degli ebrei». Penso ai fuggiaschi dall'Europa viennese o berlinese che hanno giurato «mai più». Penso a quei rifugiati famelici, sfuggiti ai ghetti e alle yeshivah di Polonia e Lituania, che seppero trasformarsi in costruttori di citta. Penso ai nuovi migranti che fuggono, in questo primo scorcio del ventunesimo secolo, dai territori ed ex colonie delle repubbliche europee. Penso a questo paese sempre isolato che combatte ogni giorno contro la sua solitudine. Ha forse riflettuto a tutto questo il presidente Trump, quando ha messo mano al dossier «Gerusalemme»? Ha pensato ai figli di Israele, cui è stato concesso appena l'arco di una sola vita umana per riprendere fiato e resistere? E a loro che va il mio pensiero questa mattina. E per questi figli, che io tremo in questi ultimi giorni dell'anno. Sarebbe stato infinitamente meglio calare questa carta vincente — la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale — al *** l'interno di un vero piano di pace, il solo in grado di garantire l'inalienabile diritto di questo paese all'esistenza e alla sicurezza. Ma il 45 presidente degli Stati Uniti non se n'è curato minimamente: mirava alla spacconata politica, non a scrivere la Storia. (traduzione di Rita Baldassarre)

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