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Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.12.2017 'Il problema non è Trump, ma il fanatismo. Nei Paesi islamici minoranze perseguitate, gli arabi palestinesi non vogliono la pace'
Amos Oz intervistato da Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 12 dicembre 2017
Pagina: 8
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «'Più di Trump temo i fanatici, non solo arabi'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/12/2017, a pag. 9, con il titolo 'Più di Trump temo i fanatici, non solo arabi', l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Amos Oz.

Finalmente Amos Oz, a differenza di quanto fatto dai suoi colleghi scrittori israeliani i giorni scorsi, si esprime con equilibrio sulla dichiarazione di Donald Trump su Gerusalemme. Il problema, secondo Oz, non è Trump, ma il fanatismo. Oz sottolinea poi la situazione nei Paesi musulmani: "Oggi è difficile essere minoranza sotto una maggioranza musulmana, specie se ci sono quelli che cercano vendetta, con i fanatici che dettano la politica", e bene fa a chiarire che uno Stato palestinese non esiste semplicemente perché gli arabi palestinesi stessi a più riprese hanno rifiutato tutte le offerte di Israele.

Ecco l'intervista:

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Lorenzo Cremonesi

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Amos Oz

«Mio padre venne picchiato a sangue, quasi ucciso, mentre studiava all’università di Vilnius da un branco di lituani antisemiti. Era la metà degli anni Trenta, ben prima dell’arrivo delle truppe naziste. Per lui fu evidente che doveva lasciare l’Europa. Divenne sionista, partì per Gerusalemme. Più tardi mi raccontava che in realtà quell’aggressione gli salvò la vita. Se fosse rimasto, sarebbe morto con milioni di altri ebrei nella macchina dell’Olocausto, tra cui la maggioranza dei suoi famigliari. La sua lezione personale è anche quella collettiva dello Stato di Israele: gli ebrei non devono più essere minoranza a casa propria. In Israele dobbiamo restare la maggioranza della popolazione. Per questo motivo molto elementare io non credo nella soluzione dello Stato binazionale. Se annettessimo Cisgiordania e Gaza noi diventeremmo ben presto una minoranza nel nostro Paese. Lo so che se ne parla da tempo ormai. Ne parlano i palestinesi umiliati dalle ultime dichiarazioni di Trump su Gerusalemme, che non credono più nella partizione in due Stati. E per motivi ideologici ben noti lo propagandano anche le destre israeliane, che sostengono il movimento dei coloni, assieme alla sinistra più estrema. Ma è un errore. Non mi stancherò mai di ripeterlo». Ci siamo appena seduti nel suo studio luminoso e tappezzato di libri al dodicesimo piano di uno dei grattacieli di Ramat Aviv, il quartiere universitario che è anche cuore della Tel Aviv laica, e subito Amos Oz parla della sua grande passione dopo quella dello scrivere romanzi: la politica. Una passione che lo vide nel 1982 tra i massimi leader di «Pace Adesso», il movimento contro l’invasione israeliana del Libano, e poi grande sostenitore degli accordi di Oslo tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel 1993. L’università di Vilnius gli ha da poco fatto avere i documenti relativi a suo padre. Sono gli attestati di iscrizione e degli esami, alcune foto ingiallite di un diciannovenne magro, dall’espressione seria. Raccontano un mondo di fantasmi alla vigilia della catastrofe. Oz è rilassato. Non ha parole tenere per i pochi palestinesi che stanno manifestando contro Trump. «Hanno perso il treno del processo di pace ai tempi di Bill Clinton. L’ultima possibilità è bruciata con Ehud Barak nel Duemila. Era stata la loro chance migliore di avere lo Stato, potevano accettare e lavorare per migliorarla, come per noi fece David Ben Gurion nel 1948. I leader europei, che allora erano della generazione cresciuta con i miti universitari terzomondisti del ’68, erano pronti ad ascoltarli, stavano con loro. Oggi non più. Il loro tempo è passato. Ci sono altri problemi più urgenti in Medio Oriente. Le piazze palestinesi sono scoraggiate dai loro leader. Mancano idee, motivazioni e volontà di combattere». Il rifiuto dello Stato binazionale è dunque senza appello? «Pochi giorni fa, nella stessa poltrona dove sta lei, era seduto uno dei massimi negoziatori palestinesi. Voleva convincermi che siamo tutti semiti, che in realtà la convivenza come cittadini dello stesso Stato sarebbe molto semplice. Ma non lo credo affatto. Sono scettico degli Stati multinazionali. Pochi catalani riescono a mettere in dubbio la Spagna. Non occorre ricordare cosa è capitato nella ex Jugoslavia. Basti vedere gli eventi del Medio Oriente negli ultimi anni. Iraq, Siria, Libano, Afghanistan, con le minoranze discriminate, se non derubate e massacrate. Oggi è difficile essere minoranza sotto una maggioranza musulmana, specie se ci sono quelli che cercano vendetta, con i fanatici che dettano la politica. Quando gli ho ricordato la sorte terribile degli yazidi, le difficoltà dei curdi e ancor più dei cristiani in Medio Oriente, lui è rimasto in silenzio. Cosa poteva replicare?». Da qui a parlare della mossa di Trump su Gerusalemme il passo è breve. «Possiamo ancora dividere il Paese seguendo più o meno i confini della Guerra dei Sei Giorni. Non credo a chi dice che l’annessione ebraica della Cisgiordania sia ormai irreversibile. Possiamo far traslocare i coloni ebrei, che vivono per lo più nel 4 per cento dei territori occupati. Possiamo benissimo dividere Gerusalemme per farne la capitale di due Stati distinti. Più avanti, se funziona, potremo cooperare, prima economicamente, poi magari pensare a una confederazione. Ma prima di tutto dobbiamo separarci, come in un condominio dove ognuno ha il suo appartamento con la chiave per la sua porta. Non mi piacciono i dormitori». Il suo giudizio su Trump è meno duro di quanto si possa pensare. «Io più di tutti temo i fanatici, che purtroppo da noi sono di casa, compresi gli ebrei. Ci sono certi operatori umanitari delle Ong europee che sono più fanatici degli stessi estremisti arabi. I fanatici sono dovunque, dannosi per tutti, che parlino in nome di Dio o delle diete vegetariane. Con loro non si ragiona. L’ho scritto anche in Cari fanatici , il mio ultimo libro pubblicato da Feltrinelli, che vorrei fosse letto come una sorta di mio testamento politico. Trump è piuttosto un bambino viziato che in ogni momento vorrebbe essere amato e si offende per qualsiasi critica. Un presidente irruente, destinato a creare tensioni, però non un religioso fanatico. E questa è una fortuna, può rivelarsi un pragmatico che cambia idea. Sono molto più pericolosi certi fondamentalisti cristiani nel Congresso Usa. Temo i suoi consiglieri, non lui. Non mi stupirebbe neppure che grazie al suo rapporto personale con Putin, dettato anche dal comune desiderio di isolare la Cina, tra qualche mese non elaborino assieme una proposta di pace per noi». Oz qui sorride, gli piace il paradosso: «Vi immaginate se Putin e Trump si intendono per obbligarci a dividere la regione in due Stati? Chi potrebbe opporsi davvero?».

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