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Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.12.2017 Gli schiavisti di Allah: cade un tabù, lo si può dire. Occorre farlo conoscere
Analisi di Stefano Montefiori

Testata: Corriere della Sera
Data: 10 dicembre 2017
Pagina: 13
Autore: Stefano Montefiori
Titolo: «Gli schiavisti di Allah»

Riprendiamo da LETTURA del Corriere della Sera di oggi, 10/12/2017, a pag.13, con il titolo "Gli schiavisti di Allah", l'analisi di Stefano Montefiori

Consigliamo ai nostri lettori insegnanti (ma non solo a loro) di stampare questa pagina per farne oggetto di dialogo con gli studenti. Si rompe per la prima volta il tabù dello schiavismo, da sempre attribuito al colonialismo occidentale. Finalmente appare in tutta la sua mostruosità quello islamico. E' un dovere farlo conoscere.

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Stefano Montefiori

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L'inchiesta della giornalista Nima Elbagir e di tre colleghi della Cnn sui mercati degli schiavi in Libia ha provocato polemiche sul ruolo dell'Italia e dell'Europa, che hanno stretto un accordo con le autorità libiche per frenare gli sbarchi di migranti, senza vigilare abbastanza — questa è l'accusa — sulle attività delle organizzazioni criminali. Nell'appello firmato da tante celebrità francesi (dall'attore Omar Sy agli scrittori Alain Mabanckou e Jean-Christophe Rufin), per esempio, c'è tutta l'indignazione per le mancanze dell'Unione Europea e della comunità internazionale. Altri, come lo scrittore e saggista Pascal Bruckner, preferiscono sottolineare un altro aspetto: le migliaia di neri africani che lasciano i loro Paesi per mettersi nelle mani di trafficanti, venendo talvolta poi venduti come merce, seguono le stesse rotte percorse per molti secoli dagli schiavisti arabi. Quel mercato vergognoso non è, o non è solo, il prodotto di un patto più o meno scellerato concluso dalle solite potenze ex coloniali; è anche il frutto di una tradizione di schiavismo praticato dagli arabi nordafricani a danno nei neri subsahariani. La tratta degli schiavi a opera delle poteme europee è stata molto studiata e denunciata, fa parte del panorama intellettuale e culturale dell'Occidente ed è uno dei pilastri del suo — in linea di massima giustificato — senso di colpa. In Francia, la legge Taubira del 21 maggio 2001 definisce «un crimine contro l'umanità» la tratta degli schiavi, e si dà per scontato che sia quella organizzata dagli europei per rifornire di manodopera le loro colonie d'oltremare. Ma accanto a questi crimini occidentali, che restano gravi, ci sono quelli commessi dai mercanti arabi. Atrocità meno note, anche perché il mondo arabo-musulmano sembra fare fatica a tornare sulle pagine meno nobili del suo passato. Tra i pochi ad avere il coraggio di farlo c'è, ricorda Pascal Bruckner, lo storico franco-senegalese e musulmano Tidiane N'Diaye, autore nel 2008 di un importante libro edito da Gallimard, Le génocide voilé. «La tesi che difende N'Diaye — scrive Bruckner in un lungo intervento su "Le Point" — è semplice quanto netta: se la tratta transatlantica (organizzata dagli europei, ndr), che è durata quattro secoli, è qualificata a giusto titolo come crimine contro l'umanità, la tratta dei neri d'Africa compiuta dal mondo arabo-musulmano, cominciata a partire dal VII secolo dopo Cristo e conclusa ufficialmente nel XX, può essere assimilata a un genocidio: secondo le stime fece 17 milioni di vittime, tra uccisi e castrati. Mentre 70 milioni di discendenti degli schiavi o di meticci africani popolano il continente americano, dagli Stati Uniti al Brasile, solo pochi neri sono riusciti a sopravvivere in terra d'Islam». N'Diaye sostiene che la conquista dell'Egitto da parte degli arabi, nel VII secolo, è coincisa con l'asservimento delle popolazioni della Somalia, del Mozambico e del Sudan. I Nubiani, continuamente sottoposti agli assalti dei combattenti della «guerra santa», preferirono cercare un accordo e conclusero nel 652 un trattato con l'emiro Abdallah ben Saïd, che impose loro la consegna di 360 schiavi neri all'anno. Uomini, donne e bambini venivano poi rivenduti in Turchia, Persia, Penisola arabica e Nord Africa, secondo due rotte principali: una terrestre attraverso il Sahara, l'altra marittima a partire dai porti della costa orientale africana. Secondo lo storico è difficile stabilire quante furono le vittime, perché nei secoli le prove documentali della tratta dei neri a opera degli arabi sono state cancellate o manomesse. Grazie anche agli studi dell'africanistica americano Ralph Austen, è possibile tuttavia supporre che, dal VII al XX secolo, 7,4 milioni di neri siano stati deportati dall'Africa subsahariana; a loro bisogna aggiungere i 6 milioni di prigionieri morti durante il viaggio e altri 370 mila rimasti nelle oasi. Poi, nelle regioni prossime al Mar Rosso e all'Oceano Indiano, potrebbero essere stati portati otto milioni di neri, arrivando così al totale di circa 17 milioni. Tra loro, molti morirono per le infezioni e le sofferenze indotte dalla castrazione, che veniva praticata come prassi perché si pensava in questo modo di mantenere la supremazia anche virile degli arabi. II guaio è che quegli eventi storici, poco indagati e ancor meno conosciuti, hanno prodotto guasti che si perpetuano ancora oggi. «I popoli arabo-musulmani — dice N'Diaye — hanno fatto razzie, castrato e ridotto in schiavitù le popolazioni nere senza interruzione per i3 secoli E in pieno XXI secolo continuano a martirizzare i neri nel Maghreb e a sottoporre le donne nere a schiavitù in Medio Oriente» . Lo storico parla di un razzismo poco conosciuto che ancora continua, quello dei nordafricani arabi, dalla pelle chiara, nei confronti degli africani neri. Lo schiavismo e il razzismo verso i neri praticati non dai bianchi occidentali, ma dagli arabi, sono al centro anche di due notevoli romanzi usciti negli ultimi anni, prova che il silenzio comincia a rompersi. Tra i finalisti dell'ultimo premio Goncourt c'era Bakhita (Rizzoli) di Véronique Olmi, storia di «madre Moretta», schiava e poi santa, nata in Darfur nel 1869 e morta a Schio (Vicenza) dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Bakhita, «Fortunata», è il nome che le venne dato per beffa dopo che due uomini andarono a rapirla nel villaggio di Olgassa, nel Darfur, quando aveva sette anni. Al grande mercato di El Obeid venne comprata da un ricco arabo che la portò a casa come un trofeo, regalandola alle figlie. Le ragazze mostrano alle amiche questa schiava così bella «che sa fare tante cose», come imitare le scimmie e prendere con la bocca i frutti lanciati in aria. Un altro romanzo che denuncia il razzismo di tanti arabi verso i neri è Il matrimonio di piacere (La nave di Teseo) di Tahar Ben Jelloun, in parte ambientato in Marocco. «La macchina fotografica di Salem (uno dei protagonisti, ndr) fu confiscata. All'inizio lui protestò, disse che era marocchino, il padre di Fès e la madre senegalese, ma nessuno fece attenzione a lui. Ricevette un colpo sulla nuca e gli sembrò di sentire un agente che diceva: "tutti i marocchini sono africani, ma non tutti gli africani sono marocchini". Salem capì che il colore della sua pelle lo aveva già condannato e che nessun discorso avrebbe mai potuto farci niente». II romanzo di Ben Jelloun, marocchino, parla di un uomo d'affari arabo che contrae un «matrimonio di piacere», permesso dall'Islam, con una bellissima donna senegalese che frequenta nei viaggi di lavoro a Dakar, ma anche del rapporto tra arabi e neri in Nordafrica. «I pochi discendenti degli schiavi — dice Tahar Ben Jelloun — sono considerati dei cittadini di secondo rango dagli arabi, che hanno la pelle più bianca e si sentono più civilizzati. A questo atteggiamento che ha radici antiche nella tratta degli schiavi, si è aggiunto il razzismo contro i neri che passano dal Maghreb e dalla Libia nella speranza di raggiungere l'Europa». Bruckner critica da sempre il monopolio occidentale del pentimento, a cominciare da Il singhiozzo dell'uomo bianco, pubblicato in Francia nel 1983 (Longanesi, 1983; Guanda, 2008). Ora invita il mondo arabo-musulmano a cominciare l'autocritica sullo schiavismo, «a chiedere perdono per il suo ruolo nella "caccia ai neri" e a interrogarsi sul suo razzismo. Il senso di colpa va spartito tra tutti i popoli che hanno commesso gravi torti».

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