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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.12.2017 Gerusalemme Capitale: Corriere della Sera fazioso contro Israele
Con gli interventi di Lorenzo Cremonesi, Khaled Diab, Etgar Keret

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 dicembre 2017
Pagina: 2
Autore: Lorenzo Cremonesi - Khaled Diab
Titolo: «Trump riconosce Gerusalemme. E devia il corso del processo di pace - Mossa che infiamma e unisce tutte le fazioni - Donald è un bullo Ma i problemi sono altri»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/12/2017, a pag. 2-3, con i titoli "Trump riconosce Gerusalemme. E devia il corso del processo di pace", "Mossa che infiamma e unisce tutte le fazioni", i commenti di Lorenzo Cremonesi, Khaled Diab; con il titolo "Donald è un bullo Ma i problemi sono altri", l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Etgar Keret.

Il Corriere della Sera pubblica due pagine tendenzione su Israele. A differenza della Stampa, non pubblica due servizi con opinioni di israeliani e arabi palestinesi pro e contro le dichiarazioni di Donald Trump, ma sceglie il pensiero unico contro lo Stato ebraico.

Secondo Lorenzo Cremonesi Trump, con le parole di ieri, ha "deviato il corso del processo di pace". Non spiega, però, che il processo di pace è fermo da anni per i ripetuti rifiuti, da parte araba palestinese, di sedersi a trattare direttamente senza precondizioni, preferendo la guerra diplomatica e il terrorismo.

Scontata la posizione anti-Israele del blogger Khaled Diab, secondo cui non è il terrorismo ma Donald Trump a aizzare le violenze.

Etgar Keret, invece, sostiene che le urgenze in questo momento siano altre, ma poi attacca Trump e Netanyahu, definendo il primo addirittura un "bullo". Anche al Corriere la selezione degli opinionisti israeliani è ristretta ai soli oppositori del governo. Sugli altri cade la mannaia della censura.

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Gerusalemme

Ecco gli articoli:

Lorenzo Cremonesi: "Trump riconosce Gerusalemme. E devia il corso del processo di pace"

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Lorenzo Cremonesi

Il dado è tratto: le conseguenze potenzialmente esplosive. Donald Trump mantiene le sue promesse elettorali e annuncia che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme «capitale di Israele», assicurando che sono già state prese le misure per iniziare a costruire l’edificio destinato a ospitare l’ambasciata, che sarà così spostata da Tel Aviv. Trasloco che potrebbe impiegare anni. Trump ancora una volta presenta la sua mossa come una rottura rispetto alle amministrazioni precedenti. Parla di un «nuovo e fresco modo di pensare», di un «passo dovuto da tempo». «Antiche sfide domandano nuove soluzioni», dice, sostenendo che il «riconoscimento di Gerusalemme aprirà a nuove prospettive di pace». Una mossa epocale. Dalla guerra del 1967, quando le forze israeliane catturarono l’intera parte orientale di Gerusalemme e poi l’annessero, l’Onu e la politica internazionale scelsero di non riconoscere la città quale «unificata capitale» dello Stato ebraico.

Da allora, in particolare proprio gli Stati Uniti hanno sempre utilizzato la questione del riconoscimento come carta di scambio importante per convincere Israele a fare concessioni alla parte palestinese. La questione poi si è fatta sempre più complicata con lo scoppio della prima intifada nel 1987, tanto che ai negoziati di pace di Oslo nel 1992-93 fu deliberatamente scelto di trattare il capitolo di Gerusalemme separatamente in una fase più tarda. Oggi Washington rinuncia a questa carta. Ovvio che Benjamin Netanyahu accolga l’annuncio a braccia aperte: «È una svolta storica. Spero che altri governi seguano presto l’esempio americano. Ogni trattato di pace deve includere Gerusalemme come la nostra capitale». Per lui si tratta di un trionfo personale prima che politico. Eppure, il discorso di Trump non implica automaticamente l’accettazione dello status imposto dalla Guerra dei Sei giorni. Non parla di Gerusalemme «eterna e indivisibile capitale di Israele», come invece dice Netanyahu. Il presidente Usa aggiunge infatti che saranno poi i negoziatori delle due parti in causa a definire i confini dei loro rispettivi Stati, non escludendo in via di principio la possibilità che anche i palestinesi possano avere la propria capitale nei quartieri orientali della città. In passato si era parlato di quello di Abu Dis. Opzione che la destra israeliana nega decisamente, tanto da continuare a costruire nuovi quartieri ebraici per vanificarla. È però la plateale ondata di critiche da parte della comunità internazionale, oltre alla reazione rabbiosa del mondo islamico, a segnare la gravità del momento. Abu Mazen, il presidente dell’Autonomia palestinese, accusa gli Usa di aver «abdicato» al loro ruolo di mediatori e rilancia polemicamente il vecchio slogan di «Gerusalemme capitale indivisibile dello Stato palestinese». Gli estremisti palestinesi di Hamas promettono di mettere la regione a «ferro e fuoco», annunciando i «giorni della rabbia», da venerdì. I militari israeliani sono già in allarme rosso. Critiche dure arrivano dall’Unione Europea («Gravemente preoccupata» il capo della diplomazia Ue Federica Mogherini), Russia e Cina. Il senso comune è che qualsiasi riconoscimento internazionale dello status della città vada preceduto da un accordo di pace. Durissimi anche Egitto, Giordania, Arabia Saudita e la Turchia.

Khaled Diab: "Mossa che infiamma e unisce tutte le fazioni"

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Khaled Diab

Trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme non cambierà di una virgola la situazione sul campo. Subito dopo la conquista di Gerusalemme Est, Israele ha annesso i quartieri palestinesi ed allargato i confini comunali per abbracciare vasti territori della Cisgiordania. E qui sono stati insediati la Knesset, il Parlamento israeliano, e tutti i ministeri. Molti Paesi hanno i loro consolati a Gerusalemme, i quali ufficialmente non rispondono né alle autorità israeliane né a quelle palestinesi, nel rispetto del piano di spartizione varato nel 1947 dall’Onu che faceva della città un «corpus separatum» sottoposto a gestione internazionale. Israele già la considera capitale e persegue questo scopo tramite un insieme di politiche, come l’approvazione lampo di nuovi insediamenti all’interno e tutt’attorno l’area municipale annessa. A questo si aggiungono le misure messe in atto per allontanare o espellere i restanti abitanti palestinesi, la quasi impossibilità di accedere a concessioni edilizie, le demolizioni di abitazioni private, la revoca di permessi di residenza, per non parlare dell’isolamento economico, sociale e politico cui è sottoposta Gerusalemme Est, tagliata fuori dal resto della Cisgiordania tramite il muro e le barriere. Se non cambia nulla sul campo, la mossa di Trump ha il potenziale per cambiare tutto in prospettiva. Gerusalemme resta il punto cruciale del conflitto israelo-palestinese e incarna un potente simbolo culturale e religioso sia per i palestinesi che per gli israeliani. Il profilo della Città Vecchia, dominata dalla Cupola della Roccia, appare su ogni cosa, dai manifesti sionisti pre-partizione ai calendari alle pareti delle case palestinesi a Gerusalemme, in Cisgiordania, a Gaza e altrove. «L’anno prossimo a Gerusalemme» è una preghiera recitata da secoli dagli ebrei della diaspora. Ed è così che immaginano Gerusalemme i profughi palestinesi, quando pensano al ritorno. Gerusalemme è un microcosmo di sofferenza per la popolazione palestinese. Una questione che infiamma e unisce. Dopo decenni di trattative infruttuose, Trump è riuscito a unificare tutte le fazioni politiche palestinesi nell’opposizione a questa mossa. Non è dato sapere se questo porterà a una nuova intifada. Ma se da una parte troviamo l’intransigenza di Israele e dall’altra nessuna visione chiara e nessuna leadership capace di incanalare il sentimento popolare, ogni nuova ondata di sommosse rischia di rivelarsi inefficace come nel recente passato. Il processo di pace è morto da un pezzo. È giunto il momento che la leadership palestinese riconosca questa realtà e sostituisca le sue futili iniziative con una lotta per i diritti civili, chiedendo alla comunità internazionale, soprattutto all’Europa, di sostenere i palestinesi nel loro sforzo per ottenere pari diritti civili, politici ed economici, anziché inseguire il miraggio di uno Stato indipendente, per il quale non esiste più alcuno spazio concreto.

Lorenzo Cremonesi: "Donald è un bullo Ma i problemi sono altri"

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Etgar Keret

«Trump e Gerusalemme non c’entrano nulla con i problemi reali — dice lo scrittore israeliano Etgar Keret —. È aria calda: il ruolo di presidente dipende anche dallo spessore della persona e Trump ha dimostrato di essere un peso piuma. Intacca i simboli, non la realtà».

Quali sono i problemi di sostanza? «Pochi giorni fa a Tel Aviv e in altre città israeliane, decine di migliaia di persone sono scese in piazza per contestare la corruzione profonda del governo Netanyahu come non avveniva da anni. Questo è un problema molto reale. Come del resto lo è quello della crescita dell’influenza dell’Iran in tutta la regione. Si stanno creando le condizioni di una prossima guerra regionale. E intanto la Russia di Putin arriva con le sue basi in Egitto. Sono temi gravissimi per tutti. Tra dieci anni si parlerà di questo. Non delle parole vuote di Trump su Gerusalemme».

Gerusalemme è sempre stata al cuore di qualsiasi processo di pace... «Non c’è alcun processo di pace, nessuna prospettiva concreta ormai da molto tempo. Avrebbe avuto senso se Trump nel suo discorso avesse proposto di muovere l’ambasciata americana a Gerusalemme in cambio del blocco totale delle colonie israeliane nei Territori Occupati. Ma non c’è alcuna strategia, nessun piano negoziale concreto se non il vuoto parlare di pace. Non c’è sostanza. Ho il sospetto che Trump e Netanyahu abbiano agende molto simili a riguardo. Trump si trova ancora una volta a dover giustificare al suo Paese i suoi rapporti con la Russia di Putin. Bibi rischia di andare sotto processo per la sua disonestà. Preferiscono deviare l’attenzione dell’opinione pubblica con lo status della Città Santa».

Che cosa possiamo dire del discorso di Trump? «Che con Trump gli Stati Uniti rinunciano al loro ruolo storico di motore primo del dialogo tra israeliani e palestinesi. Quando dice che lui si adatta alla volontà dei due popoli significa che si rimette alle loro scelte, non le spinge, non le condiziona. Cosa capita se la destra israeliana si oppone a qualsiasi compromesso? E se Hamas dichiara la guerra santa a oltranza? È pura demagogia che cerca di nascondere il vuoto di idee e iniziative».

Si rischia una terza intifada? «Se questo passo fosse stato compiuto una quindicina d’anni fa, quando i negoziati erano davvero in corso, avrebbe potuto avere un impatto forte. Ma non adesso. Oggi i palestinesi hanno il problema di muoversi quotidianamente tra le colonie ebraiche in Cisgiordania. Tra loro sono divisi, hanno una leadership debole. E in Israele siede un governo composto da gente contraria a qualsiasi concessione per la nascita di due Stati. Certo che ora potrebbero esserci violenze. E le temo. Ma con Trump adotterei lo stesso atteggiamento che consigliava mia madre quando ero bambino con i bulli a scuola: lasciali perdere, ignorali, che più si sentono ascoltati e più fanno danni».

Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


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