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Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.11.2017 Guardarsi dai cosidetti 'esperti '
Lorenzo Cremonesi, Antonio Ferrari

Testata: Corriere della Sera
Data: 26 novembre 2017
Pagina: 55
Autore: Lorenzo Cremonesi-Antonio Ferrari
Titolo: «Israele guarda a Riad, una alleanza impensabile-La prossima guerra del Medio Oriente»

Risultati immagini per arabia saudita cartina politica

Riprendiamo da LETTURA del CORRIERE della SERA di oggi, 26/11/2017, alle pagg.53/54/55, due analisi di Lorenzo Cremonesi e Antonio Ferrari, argomento il Medio Oriente, sul quale dovrebbero avere una certa esperienza. Usiamo il condizionale a ragion veduta.
Antonio Ferrari scrive " Il febbrile attivismo dell'erede al trono dell'Arabia Saudita, bin Salman, rischia di travolgere il fragile equilibrio della regione. Riad ha 'dismesso'il premier libanese Saad Hariri, intensificato la campagna nello Yemen, firmato impegni militari con Trump per quasi 500 miliardi e rilanciato l'odio verso l'Iran". Bene, per capire come stanno le cose, basta capovolgere tutto quanto scrive Ferrari, dato che la verità è l'esatto contrario di quanto sostiene, il nostro "esperto" immaginario.

 Lorenzo Cremonesi, che fa per informare il lettori del Corriere sull'Arabia Saudita? Intervista un giornalista del Guardian, che è un po' come intervistare uno del Manifesto per avere un commento sulla salute del comunismo. Jan Balck, l'intervistato - per molti anni corrispondente da Israele (come Cremonesi), e poi ci stupiamo della poca attendibilità dell'informazione su Israele-  non ha una sola parola sulla minaccia rappresentata dall Iran, mentre Cremonesi sostiene che il principe ereditario sta mandando in malora l'economia saudita!

In entrambi i pezzi c'è molto di più, ma li lasciamo alla attenzione dei nostri lettori.

Lorenzo Cremonesi: " Israele guarda a Riad, una alleanza impensabile "

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Lorenzo Cremonesi

Non ci sarà una guerra diretta tra Arabia Saudita e Iran. Però tra loro continuerà ll braccio di ferro indiretto e violento, fatto di sfide anche militari tramite i rispettivi alleati regionali, come abbiamo visto negli ultimi anni. Il Medio Oriente del dopo-Isis è destinato a essere pesantemente condizionato dallo scontro tra sciiti e sunniti, fazioni di cui Teheran e Riad sono rispettivamente le massime rappresentanti». Nella sua lunga carriera di giornalista e studioso britannico del Medio Oriente, Ian Black si è recato più volte nei due Paesi. E la «strana vicenda», come lui stesso la definisce, delle dimissioni del premier libanese Saad Hariri, annunciate dalla capitale saudita, è servita per ricordarci quanto destabilizzante sia per uno Stato minore, ma importantissimo qual è il Libano, la sfida irano-saudita. Black è stato corrispondente da Gerusalemme del «Guardian» dal 1980 e venne allora chiamato a seguire il conflitto tra Iran e Iraq. «i militari iracheni erano stupefatti dalle ondate di soldati iraniani che si immolavano negli attacchi all'arma bianca sui campi minad. Erano stati indottrinati da una totalizzante ideologia del martirio che mischiava religione e nazionalismo», ci ricordava pochi mesi fa. Diventato commentatore di punta del suo giornale, di recente è stato accolto tra i ricercatori del Middle East Center alla London School of Economics. La sua ultima opera Enemies and Neighbours («Nemici e vicini», Allen Lane) ricostruisce un secolo di storia del conflitto tra arabi ed ebrei, dalla Dichiarazione Balfour al recente avvicinamento tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e II 32enne principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman• «Un avvicinamento senza precedenti, che illumina quanto forte sia la nuova convergenza di interessi tra israeliani e sauditi nel tentativo di frenare la crescita della potenza iraniana, che dall'invasione americana dell'Iraq nel 2013 non ha fatto che consolidarsi».
Ci sarà un conflitto aperto?
«Lo credo impossibile per il fatto evidente che gli iraniani sono molto più forti. I sauditi non sono in grado di affrontarli in una guerra convenzionale».
Eppure da anni Riad investe cifre enormi nei migliori armamenti americani. Come lo spiega?
«Non basta la qualità delle armi per vincere. Lo vediamo in Yemen, dove i sauditi hanno investito il meglio del loro esercito, compresa un'aviazione che costa miliardi. Eppure restano impantanati. Non vanno avanti contro forze molto meno armate. La guerriglia primitiva sostenuta dall'Iran delle tribù sciite Huthi, nel Nord del Paese, tiene duro. E, nonostante le gigantesche devastazioni e le sofferenze della popolazione civile a causa dei bombardamenti sauditi, addirittura avanza».
Dunque?
«i sauditi sono 20 milioni, gli iraniani oltre 80. Ma soprattutto le forze di Teheran hanno esperienza, conoscono l'arte sottile della guerriglia. Ci sono in Iran una cultura della guerra e una capacità di mobilitazione popolare che non esistono in Arabia Saudita. Lo hanno dimostrato le milizie sciite in Iraq, sostenute dall'Iran, contro Isis e altre formazioni estremiste sunnite. I loro alleati principali, raccolti nella milizia sciita libanese dell'Hezbollah, si sono dimostrati ottimi combattenti. n regime di Bashar Assad in Siria non sarebbe mai sopravvissuto alla rivolta delle milizie sunnite seguita alla Primavera araba del aou se non ci fossero stati loro. Da allora la forza di Hezbollah non ha fatto che crescere. Pare disponga tra l'altro di migliaia di missili, in grado di colpire l'intero territorio israeliano».
I sauditi non sono pronti a combattere?
«Poco o nulla. Quando possono delegano ad altri, difficilmente s'impegnano in modo diretto. Lo abbiamo visto al tempo dell'invasione del Kuwait voluta da Saddam Hussein nel rggo. I sauditi si sentirono minacciati. Reagirono, condannarono, lanciarono appelli. Ma quando si trattò d'intervenire militarmente, furono ben contenti di ospitare l'esercito americano, che guidò la coalizione alleata dal loro territorio. La liberazione del Kuwait non fu affatto una guerra saudita, sebbene Riad •.cicssc , ' á di tutti. Lo stesso avviene oggi per il braccio di ferro nucleare. Riad si è sempre opposta all'atomica iraniana. Ma ha delegato a Washington il compito di combatterla o almeno contenerla. E adesso a Riad ci si sente molto più forti con Donald Trump che minaccia di rinnegare il trattato sul nucleare iraniano, letto a suo tempo come un tradimento americano. I sauditi si erano visti abbandonati da Barack Obama».
E possibile un'alleanza tra israeliani e sauditi?
«Credo sia semplicemente inconcepibile. E vero che tra due Paesi crescono gli interessi comuni. Trovo straordinario che in una intervista il capo di stato maggiore Israeliano abbia offerto di lavorare assieme contro l'Iran. Ma finché resterà vivo il conflitto arabo-israeliano, un'alleanza ufficiale con Riad sarà impossibile».
Riad ha commesso un errore spingendo Hariri alle dimissioni?
«È presto per giudicare. Troppi aspetti sono ancora poco chiari. Anche se è una mossa che mi ricorda un po' quella molta a isolare Il Qatar. Tanto rumore, ma risultati scarsi. II Libano comunque è molto più debole del Qatar. Per condizionare l'egemonia interna dell'Hezbollah e spingere i partiti libanesi a limitarla potrebbero funzionare meglio le pressioni economiche».
II principe Mohammed bin Saiman promette di incentivare un islam moderato, lontano dal wahabiti fanatici che hanno fornito II terreno ideologico di Al Qaeda e Isis. Però, in nome della democrazia e della lotta alla corruzione, si mostra più intollerante e accentratore dei predecessori. Pare stia causando gravi danni all'economia saudita. Come lo giudica?
«Per molti aspetti ci rassicura. Ha lottato per dare finalmente il diritto di guida alle donne, promette forti riforme interne contro l'estremismo islamico, intende svecchiare la gerontocrazia al potere, cerca il dialogo aperto con l'Occidente, vorrebbe ridurre la dipendenza dell'economia nazionale dall'export petrolifero. Però poi emergono lati oscuri sulle sue ricchezze personali Si è comprato uno yacht da 5oo milioni di dollari. Con che soldi? E quali garanzie democratiche dà alla stampa quando sappiamo che continua a censurare e ad arrestare gli oppositori? Chi ci assicura che non stia creando un regime anche più verticistico e intollerante del precedente? Sono domande ancora prive di risposte»

Antonio Ferrari: " La prossima guerra del Medio Oriente "

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Antonio Ferrari

Il pensiero che, da sempre, mi guida nella vita è di Eraclito: «II destino dell'uomo è U suo carattere». Il pensiero che mi aiuta ad affrontare le intemperie di questi anni deboli, litigiosi e tumultuosi è di Zygmunt Bauman, sociologo, filosofo, geniale intellettuale polacco, che d ha raccontato e spiegato la «società liquida». Ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte prima che ci lasciasse, grazie agli annuali convegni internazionali della Comunità di Sant'Egidio, e di ascoltare le sue preziose convinzioni per capire dove stiamo andando, dove U Medio Oriente sta andando, dove ll mondo sta andando... Quanto ho pensato a lui in questi giorni, punteggiati da mille sorprese difficili da spiegare. Esiste una politica internazionale liquida? Non so cosa avrebbe risposto Bauman. Penso però che, dopo aver lanciato uno sbuffo di fumo dalla sua pipa, avrebbe assentito: «Si, esiste. Perché tutto è diventato liquido. Le ideologie, II pensiero, gli equilibri, i partiti, le frontiere, torse anche gli uomini». Drammatico, però atrocemente vero. In queste ore esulto perché un brandello di autentica solidità istituzionale arriva da Parigi, dalla città della luce, da un uomo che non dobbiamo mal sottovalutare: U presidente francese Emmanuel Macron. Nome biblico e forti ideali europei. Macron ha fatto quel che nell'Unione Europea nessuno ha osato. Una tappa non prevista in Arabia Saudita, per parlare e ammorbidire gli entusiasmi pericolosi dell'erede al trono Mohammed bin Salman, figlio del re, e per strappargli un «ostaggio di fatto», il primo ministro libanese Saad Hariri, che da Riad si è dimesso dal suo ruolo e dal suo compito libanese, come se fosse un prigioniero Impossibultato a ragionare e a decidere con la propria testa. L'erede al trono saudita bin Salman, giovanotto penne di belle speranze, sicuramente non bacchettone, dl certo progressista, ma già ammaliato dall'onnipotenza che regala U delirio del potere, ha deciso che i dollari e la poltrona sono tutto e che quindi Saad Harlrl (la sua famiglia ha da sempre rapporti privilegiati con il regno) deve obbedire, e dichiarare guerra aperta agli altri protagonisti fondamentali degli equilibri libanesi, rilanciando il conflitto più velenoso nel mondo musulmano: quello tra sunniti e sciiti. Ha spinto (leggere «costretto») Saad ad attaccare l'Iran e 1'Hezbollah, che poi è l'esercito parallelo della Repubblica dei cedri, e a dimettersi da primo ministro. Vera violenza istituzionale. Sunniti e sciiti sono come i «parenti serpenti» del film di Mario Monicelli, e meno superficialmente rappresentano le due anime dell'islam: i presuntuosi e intransigenti sunniti, diretti e diletti figli del profeta Maometto, e la minoranza sciita, nata e cresciuta con la rivolta di Ali, cugino primo e genero del profeta avendo sposato la figlia Fatima, contro lo strapotere della maggioranza. Ancora una volta, come sempre, si tratta di un conflitto sociale ed economico, proprio come quello che oppose la Chiesa cattolica ai protestanti. Forte e arrogante la prima, progressisti ma deboli quelli che ne mettevano in discussione U potere assoluto. Fortunati  i primi (i sunniti), assai meno fortunata la minoranza dei musulmani (gli sciiti) che riuscì a prevalere nel Paese più antico e colto dell'islam, cioè l'Iran. È da allora, e sono passati quasi 15 secoli, che quel conflitto pesa sul Medio Oriente, e continuerà a pesare fino a quando si imporrà (speriamolo) la forza di un rinascimento. II sannita libanese Saad Haiti è sicuramente un debole, ben diverso da suo padre Rafic, mio grande amico, che sapeva rifugiarsi nel coraggio di non avere paura. Rafic, ín un'epoca in cui molti giornalisti avevano la schiena dritta, non erano ipocriti interessati e neppure seguaci della prudente e antica «altalena», molto democristiana, intessuta di se, ma, però per non infastidire nessuno, mi faceva telefonare ogni volta che doveva prendere una decisione delicata. Voleva avere il parere e il conforto di un amico. Confesso che a volte questa sua illimitata fiducia mi imbarazzava. II figlio primo ministro è sicuramente meno verticale, e, a parte le voci sul suo sostegno armato a quaiche brigata dei tagliagole dell'Isis oltre la frontiera con la Siria, e un uomo fragile con estremo bisogno di protettori. Chi, se non II principe emergente dell'Arabia Saudita, che ha pieni poteri, che forse riceverà lo scettro prima del previsto, e che per garantirselo ha già messo in custodia tutti i concorrenti, nella più grande «purga familiare» vissuta da un Paese arabo? Guerra alla corruzione? Ma ci faccia II piacere, principe Mohammed. E come se volesse convincerci che Donald Trump sia pronto ad accettare ll castigo del silenzio. II futuro re, che forse sogna di cambiare ü nome al suo Paese — da Arabia Saudita a Arabia Salmanita — come ha scritto sarcasticamente ü giornalista del «New York Times» Thomas Friedman, sta tacendo in pochi mesi quel che nel regno non si è mai fatto: correre a caccia di traguardi sociali, allontanarsi dai custodi religiosi dell'ortodossia wahabita, lanciare riforme che dappertutto sarebbero scontate salvo nel regno (ü diritto alla guida per le donne), raccordarsi con l'aggressività assai poco democratica di tanti leader mondiali, e abbracciare ü decisionismo più ruvido, laggiù parecchio innaturale. In nome del rilancio dell'odio contro la minoranza sciita e l'Iran, ha Intensificato la sanguinosa guerra nello Yemen (di cui sl parla troppo poco), che si è trasformata in una mostruosa carneficina. Si è lasciato corteggiare dal presidente americano Trump, facendo firmare a suo padre re Salman impegni per quasi 500 miliardi di dollari in armamento statunitense. Ha poi dato il via libera al selvaggio isolamento del piccolo ma ricchissimo Qatar, considerandolo un pericoloso concorrente economico e anche religioso, visto che Doha ha rapporti stretti con ü nemico Iran. Infine ha centuplicato gli sforzi per coinvolgere Israele, e convincerio a condurre una guerra, magari a bassa intensità, contro l'odiata Teheran, contando sulle ambizioni del primo ministro-tartufo Benjamin Netanyahu, che ha un mare di difetti, che nuota tra mille guai, ma che non è uno sciocco. Un conto è trattare con i sauditi, nemici e insieme alleati (fantastico ossimoro strategico mediorientale), un conto è venire considerato una pedina per il «lavoro sporco». Tanto più che questo «lavoro sporco» potrebbe venire inteso come un tentativo di tacitare le continue esplosioni del conflitto israeliano-palestinese, doe la madre o ü padre di tutte le tragedie mediorientaü. Anche nell'egoista Arabia Saudita, nessuno osa dimenticare le sofferenze del popolo palestinese, che chiede disperatamente quell'autodeterminazione che Israele si ostina a non concedere. Ma ora siamo all'accelerazione più pericolosa, nella tribolata Arabia Saudita. Dopo aver arrestato, seppur in alberghi di lusso trasformati in dorate prigioni, tutti i principi suoi concorrenti per ü trono, bin Salman è andato a toccare ü Libano e i suoi delicatissimi equilibri, rischiando di far deflagrare la pace garantita, salvo saltuarie «esplosioni», dalla rigorosa e confermata distribuzione dei poteri. Ricevere a Riad Saad Hariri, spingendolo a dimettersi da primo ministro e ad attaccare frontalmente l'Iran e l'Hezbollah, sottintendendo naturalmente la Siria del presidente Assad, è stato un vero azzardo, con ü rischio, sempre concreto, di una guerra immediata da combattere proprio nella dolce e martoriata Repubblica del cedri. A volte, conoscendo ü Libano da lungo tempo, mi chiedo dove sbagliamo. Se Saad sia soltanto uno sprovveduto, oppure abbia paura di essere superato dal suo fratellastro Bahaa, ben più grintoso, pronto a obbedire con maggiore entusiasmo a Riad; oppure se pesino í debiti miliardari contratti da Saad con il regno. II dinamico e spregiudicato principe saudita, infatti, ha fatto i conti regional' dimenticando ü nuovo potentissimo attore, la new entry nella politica mediorientale: la Russia di Vladimir Putin. Mosca, che entrando nell'area ha coronato un progetto sempre vanamente inseguito, non intende soggiacere a ricatti. Ha ottimi rapporti con l'Iran e con Israele, difende strenuamente la Siria di Assad, e segue con interesse le ricche monarchie del Golfo. Da una parte la Russia ha evitato l'allargamento del confatto siriano, sconvolto da una guerra fratricida, combattuta spesso per conto terzi; dall'altra ha scoperchiato gli arditi affari della Turchia del presidente Erdogan con i tagliagole dell'Isis e ü loro petrolio, imbarazzando poi il doppiogiochismo di altri importanti attori, a cominciare dagli Usa, ma anche di qualche Paese europeo. Purin ha sicuramente una visione realistica e assai spregiudicata della politica internazionale, e in questo momento è concentrato proprio sui tentacoli mediterranel. Ma non solo. Se con alcune mosse cerca di garantire l'incerta stabilità nella regione, mosse delle quali dovremmo essergli grati, con altre mosse sta facendo l'impossibile per indebolire l'Unione Europea. Sappiamo tutti che la sola idea (assai teorica) di una Ue compatta e forte non è gradita né a Washington né a Mosca, in questo caso non certo divergenti. Ma se gli Stati Uniti devono imboccare la strada della prudenza per ragioni strategiche (Nato), economiche, e per la consolidata rete di storiche alleanze, la Russia può interferire più liberamente. Molto interessante la polemica tra il Cremlino e la premier britannica Theresa May, dopo che è stata denunciata una sofisticata campagna digital mediatica di Mosca per sostenere la Brexit. Che dire poi delle interferenze russe in Catalogna, con sottili e massicce campagne sui social a favore dell'indipendenza, per minare la credibilità della Spagna e del regno di Felipe? Che dire dell'interessato silenzio di Mosca sulle manifestazioni antisemite polacche? E magari sull'indisciplina europea dell'Ungheria di Orbán, della Repubblica Ceca e della Slovacchia? Tutto dò che indebolisce l'Unione Europea viene sostenuto subliminalmente (o quasi) da Mosca. Con una grande eccezione: la Francia, l'orgogliosa Francia. Gli emissari tecno-digitall di Purin ce l'hanno messa tutta per sostenere gli antieuropeisti della Le Pen. Hanno perduto perché ha vinto invece un personaggio fuori dagli schemi, per nulla «liquido», per dirla alla Bauman, come il presidente Macron. Con la Germania della signora Merkel in difficoltà perché non riesce a formare un governo, ecco che Macron, contando sul potere e sull'immagine della Francia in Medio Oriente e in particolare in Libano, è sceso in campo. È andato a Riad (visita non prevista) da bin Salman, ha parlato con Saad Hariri, lo ha invitato e ricevuto a Parigi per dimostrare — con straordinaria ipocrisia realistica — che il primo ministro dimissionario è libero, può viaggiare, e regalandogli l'aureola di un «protetto francese». Mossa decisamente astuta, bravo Macron che convince Hariri a tomare a Beirut con la sua benedizione! Ma anche il presidente francese sa che i tentacoli mediorientali sono velenosi e che Saad Hariri, tornato a casa per affrontare la resa dei conti, prima è sceso al Cairo dal più grande alleato dell'Arabia Saudita: il presidente egiziano Al-Sisi, altro bastione sunnita, nemico della sciita Teheran ma che non vuole grane con l'Hezbollah libanese. Hariri, ricevuto a Beirut dal presidente Michel Aoun, ha sospeso (non ritirato) le dimissioni Insomma è tutto pericolosamente sospeso. Nel groviglio, occorre un mediatore o un pontiere. Se non lo si trova, la guerra sarà imminente.

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