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Corriere della Sera Rassegna Stampa
31.05.2017 I bambini-soldato dello Stato islamico
Reportage di Marta Serafini

Testata: Corriere della Sera
Data: 31 maggio 2017
Pagina: 15
Autore: Marta Serafini
Titolo: «Tra i bambini soldato dell’Isis: 'Sono buono, ma ho ucciso'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 31/05/2017, a pag. 15, con il titolo "Tra i bambini soldato dell’Isis: 'Sono buono, ma ho ucciso' ", la cronaca di Marta Serafini.

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Marta Serafini

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Erbil

Ahmed, Mohamed e Youssef sono vestiti pesante, con le tute e le felpe, anche se fuori ci sono 30 gradi. Per entrare nel centro di detenzione minorile di Erbil, capitale della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, bisogna passare i controlli. Un metal detector e poi un altro. Una farfalla blu che vola sopra due mani chiuse dalle manette se ne sta lì dipinta sul muro del corridoio vicino alle celle. Ahmed, Mohamed e Youssef— i nomi sono di fantasia — prima della guerra erano dei bambini iracheni che giocavano e andavano a scuola. I meno fortunati lavoravano. Dopo il 2014 Ahmed, Mohamed e Youssef sono diventati soldati di Isis. Hanno sparato, hanno visto i compagni mandati al martirio. In alcuni casi hanno anche ucciso. E ora sono detenuti dalle autorità curde. Sono oltre duecento i prigionieri minorenni sotto custodia dei curdi a Erbil. Quindici sono stati giudicati colpevoli e gli altri 190 sono ancora sotto indagine.

Tra loro c’è chi si è consegnato spontaneamente ai peshmerga nelle fasi iniziali dell’offensiva su Mosul, una parte invece è stata catturata in combattimento. Tutti, prima di arrivare nel centro di detenzione e andare a processo, sono stati interrogati dagli uomini di Asayish, i servizi segreti curdi. Le giornate non passano mai per i detenuti del carcere minorile di Erbil. Strascicano i piedi tra la biblioteca e il campo da calcio, dove giocano quando non fa troppo caldo. Seguono lezione di inglese, ogni tanto vedono qualche film e parlano con lo psicologo. Se vogliono possono andare a scuola. «Quelli di Daesh (Isis, ndr ) mi hanno detto “Tu sei un muezzin, quindi sei affidabile”, così mi hanno messo in mano un kalashnikov e mi hanno ordinato di fare la guardia a un tribunale», racconta Ahmed, 16 anni.

Tra loro c’è chi si è consegnato spontaneamente ai peshmerga nelle fasi iniziali dell’offensiva su Mosul, una parte invece è stata catturata in combattimento. Tutti, prima di arrivare nel centro di detenzione e andare a processo, sono stati interrogati dagli uomini di Asayish, i servizi segreti curdi. Le giornate non passano mai per i detenuti del carcere minorile di Erbil. Strascicano i piedi tra la biblioteca e il campo da calcio, dove giocano quando non fa troppo caldo. Seguono lezione di inglese, ogni tanto vedono qualche film e parlano con lo psicologo. Se vogliono possono andare a scuola. «Quelli di Daesh (Isis, ndr ) mi hanno detto “Tu sei un muezzin, quindi sei affidabile”, così mi hanno messo in mano un kalashnikov e mi hanno ordinato di fare la guardia a un tribunale», racconta Ahmed, 16 anni.

Ahmed viene da Hammam al-Alil, una cittadina vicina a Mosul dove di jihad si è sempre parlato, dall’occupazione statunitense in poi. Sembra più grande della sua età. Ha le mani forti, come quelle di un uomo. Ma quando parla, non guarda mai negli occhi. «Ogni sera mi toglievano l’arma e me la ridavano al mattino. Mi sono consegnato nel mio giorno di riposo», spiega strizzando le palpebre. Mohamed ha 14 anni. Ogni domenica e lunedì, per due ore, riceve le visite dei genitori che sono sfollati da Mosul a Erbil. La sera, quando il guardiano grida di spegnere le luci, sente le serrature scattare e ripensa a quello che gli è successo. «Lavoravo in un campo di petrolio. Poi Isis mi ha addestrato per 38 giorni, all’uso del kalashnikov, dell’Rpg (il lanciarazzi) e del fucile da cecchino», racconta. Tra i suoi istruttori c’erano ceceni, russi, curdi e «forse un iraniano». Molti erano foreign fighters , francesi, inglesi, americani arrivati in Iraq per unirsi all’Isis. «Ci obbligavano a leggere il Corano tutti i giorni, da un lato ci facevano sentire importanti, dall’altro ci trattavano come bestie, chi osava protestare veniva portato via».

A pranzo i ragazzi ricevono un piatto di riso e di pollo. Durante l’occupazione la prima cosa che gli uomini di Isis hanno fatto è stato prendere il controllo delle derrate alimentari. E tutti i ragazzi raccontano di aver mangiato davvero poco. Alcuni di loro portano ancora sul corpo i segni della malnutrizione. Youssef, 17 anni, ha delle cicatrici sul braccio. Sembrano incise con il coltello. Sono recenti, il rosso della carne viva ancora risalta, vicino al gomito. Se le copre con la mano. «Non sono cattivo, non ho mai maneggiato un’arma. Siccome tutti i dottori erano scappati, mi hanno preso per fare il medico. Un uomo più grande, un curdo, mi ha fatto vedere come cucire le ferite, ma era bravo, aiutava tutti», dice. Youssef non è l’unico che nega di aver combattuto. Ma poi cade in contraddizione. Quando gli chiediamo se abbia usato mai un’arma risponde veloce. «Mi hanno addestrato per otto mesi, mi hanno insegnato a sparare e a fare la lotta».

Ogni venerdì Youssef vede un imam che cerca di spiegargli cosa significa essere un buon musulmano. Difficile però far passare il messaggio che la guerra non è la legge di Dio. «Estirpare certe idee non è possibile, si tratta piuttosto di modificarle», spiega il capo delle guardie. Per ora questi tre ragazzi rimangono in cella. Dopo il processo verrà deciso quanto sarà lunga la loro riabilitazione. Potrà durare fino a cinque anni. «Secondo il diritto internazionale sono vittime di un crimine di guerra: usare i minori in combattimento è vietato dallo Statuto della Corte penale internazionale», sottolinea John Horgan, docente della Georgia State University. Ma perché allora punirli con il carcere? «In un conflitto un 17enne viene considerato un soldato esattamente come un adulto, è un’aberrazione. Ma succede in Iraq, Siria, Afghanistan, Israele. A Guantánamo gli Stati Uniti hanno imprigionato almeno 15 ragazzi», recita un rapporto di Human Rights Watch. La motivazione dei governi è sempre la stessa: «Sono un pericolo per la sicurezza, devono stare dietro le sbarre, anche se minori». Poi, quando le guerre finiscono, tutti si dimenticano di loro e nessuno se ne cura più. Ahmed, Mohamed e Youssef si stringono nelle loro felpe, il tempo per parlare è finito. Devono pulire i piatti del pranzo. Youssef prova a fare un sorriso. «Da grande voglio giocare a calcio come Messi, voglio uscire di qui, voglio diventare famoso», dice. Poi si gira, torna a strascicare i piedi e si incammina verso il corridoio dove c’è dipinta la farfalla blu.

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