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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.05.2017 Su 'Lettura' i 50 anni dalla guerra dei 6 giorni: una ricostruzione parziale
Commento di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 maggio 2017
Pagina: 14
Autore: Loreenzo Cremonesi
Titolo: «Il settimo giorno della guerra dei Sei giorni»

Riprendiamo da LETTURA del CORRIERE della SERA di oggi, 14/05/2017, a pag.14, con il titolo "Il settimo giorno della guerra dei Sei giorni" il commento di Lorenzo Cremonesi.
In confronto alle pagine dedicate dall'ESPRESSO uscito oggi, il pezzo di Cremonesi lo si può classificare quasi corretto, anche se evita di scrivere a chiare lettere che la guerra del '67 venne scatenata da tutti gli stati arabi per distruggere Israele. Chi conosce la Storia lo deduce, ma vi sono nel pezzo troppe divagazioni, chi non la conosce nei particolari  può essere tentato dall'attribuire la responsabilità di quella guerra a entrambi i fronti.

Lorenzo Cremonesi: "Il settimo giorno della guerra dei Sei giorni"

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Lorenzo Cremonesi

Per Israele fu una vittoria straordinaria, quasi magica grazie ai successi militari fulminei su tutti i fronti Per il mondo arabo si rivelò una sconfitta umiliante, tanto grave da condizionarlo per decenni. La chiamano guerra dei Sei Giorni, anche se in verità fu combattuta in poco meno di cinque. Viviamo tutti ancora sotto l'ombra lunga di quella guerra, affermano coloro che si occupano di Medio Oriente, compresi israeliani e palestinesi, per una volta concordi. Marcò tra l'altro l'inizio della decadenza del nasserismo e del nazionalismo arabo laico, mentre ha prodotto il rilancio dell'islam politico, dei Fratelli musulmani, e ha posto persino le fondamenta di al Qaeda e dell'Isis. Le premesse più dirette risalgono al conflitto per Suez del 1956 (estremo singulto coloniale nel era della guerra fredda), al termine del quale Usa e Urss costrinsero Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza. In cambio la penisola venne demilitarizzata con la presenza di un contingente dell'Onu. Undici anni dopo i sovietici, convinti che Israele prima o poi avrebbe attaccato la Siria, spinsero i leader arabi al conflitto, fornendo anche dati d'intelligence falsi, secondo i quali lo stato maggiore a Tel Aviv sarebbe stato in procinto di invadere le alture siriane del Golan. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, leader popolare del panarabismo, si scagliò contro il «nemico sionista da ributtare a mare». Divenne come prigioniero della sua retorica, tanto che il 17 maggio 1967 chiese il ritiro parziale dei 3.400 caschi blu al segretario generale dell'Onu U Thant. Questi commise un grave errore, sperando di dissuadere l'Egitto: o tutti o nessuno. Nasser non poteva perdere la faccia, era andato troppo in là nell'invocare la diberazione della Palestina», così cacciò l'Onu e superò la linea rossa posta da Israele, inviando 600 carri armati e centomila uomini nel Sinai. Voleva veramente la guerra? No, almeno non in quel momento, non era pronto, un terzo del suo esercito era impegnato nello Yemen. Ma il conto alla rovescia era innescato. In Israele regnava l'indecisione. Il premier Levi Eshkol tentennava. Il suo ministro della Difesa, Moshe Dayan, propendeva per l'azione immediata. Il padre della patria David Ben Gurion paventava un «nuovo Olocausto». A spostare il pendolo a favore dellattacco fu l'intelligence militare: avevano i numeri in mano, informazioni accurate, il piano comportava un attacco aereo iniziale a sorpresa. Conoscevano i nomi dei piloti egiziani, avevano le foto aeree dei loro jet disposti sulle piste, delle unità di terra nel Sinai. Così il 20 maggio scattò la mobilitazione, con 264 mila israeliani sotto le armi: una situazione che poteva durare solo pochi giorni per evitare la paralisi dell'economia. Alle 7.45 del 5 giugno la prima ondata aerea appare nei cieli egiziani. Hanno volato rasoterra per ingannare i radar. Sono quaranta caccia Mirage e altrettanti bombardieri Mystère. Prima di mezzogiorno la Pearl Harbour egiziana si è compiuta. La guerra è già decisa. Almeno 3og dei 34o aerei da combattimento di Nasser sono torce fumanti. Ma dal Cairo si parla di «strabilianti vittorie». Israele tace e colpisce. «Da Gerusalemme mi comunicavano discreti che, se non mi fossi mosso, loro non avrebbero attaccato la Giordania. Per contro Nasser mi fece avere le immagini dei suoi radar mostravano decine di aerei in volo sul Sinai. Mi disse che erano i suoi che tornavano dai raid contro i sionisti e che dovevo mandare all attacco il mio esercito, se volevo poi unirmi e beneficiare della vittoria. Fui imbrogliato, in realtà erano le ondate degli israeliani che avevano ridotto in cenere i suoi», confidò re Hussein di Giordania al «Corriere» nel 1991. Un'amarezza che ben riflette le ragioni della disfatta araba: mancanza di coordinamento, tradimenti, gelosie. La tanto celebrata «unità panaraba» si rivelò vuota retorica. Quando arrivano al canale di Suez gli israeliani hanno perso circa 30o uomini, gli egiziani oltre 15 mila. Inoltre 800 tank di Nasser sono cenere o catturati, io mila suoi automezzi sono nelle mani degli israeliani. Il 7 giugno è presa anche Gerusalemme Est, l'8 il Giordano diventa confine. Solo adesso Dayan ordina l'attacco sul Golan, che viene preso in 27 ore. Il io giugno a Damasco sventola bandiera bianca. Eppure, per Israele quel successo fu anche una maledizione. Riassume lo storico Benny Morris: «Per gli arabi fu evidente che non potevano più sperare di annullarci militarmente. La guerra del Kippur nel 1973 vide Egitto e Siria decise a riprendersi almeno parte delle terre perdute, ma non mirava a ributtare tutti gli ebrei a mare come invece predicava Nasser. Però per Israele si spalancò allora un grave pericolo interno, destabilizzante, esistenziale. ll nuovo controllo sulle regioni dell'Israele biblica vide il connubio tra nazionalismo e religione, incarnata nei movimenti estremisti messianici di coloni che andavano a insediarsi nelle aree conquistate». L'occupazione destabilizza e lacera le esistenze degli occupati, ma corrompe e vizia anche gli occupanti, sostiene da anni Amos Oz. Così gli israeliani persero la loro «verginità morale». Il Paese nato dai profughi in fuga dall'antisemitismo europeo, dai miti della resistenza al nazismo, dalla convinzione di aver guadagnato il diritto di esistere anche col sangue della Shoah, si ritrovò a mettere in atto un ampio meccanismo di controllo e repressione tra Cisgiordania e Gaza. A Hebron pochi mesi dopo la guerra arrivò un gruppo di estremisti religiosi che volle celebrare la Pasqua nell'antico edificio della «Tomba dei Patriarchi» per esaltare la cerimonia «del ritorno». Gli stessi dirigenti laburisti ne furono in gran parte contenti, videro in quei ragazzi infervorati dallo zelo religioso e nei loro rabbini esaltati una reincarnazione dei pionieri dei kibbutz. E nacquero ambiguità profonde: Israele offriva la pace in cambio del ritiro sui confini del 1948 (proposta allora rifiutata dai leader arabi), nel contempo si ponevano le basi della colonizzazione a tappeto che oggi ha de facto vanificato la formula «pace in cambio della terra» e aperto per lo Stato ebraico il dilemma del braccio di ferro demografico con i palestinesi. Una data tragica e catartica segna questa parabola: 4 novembre 1995. Allora, nella piazza centrale di Tel Aviv, mentre la sinistra celebrava gli accordi di Oslo con i palestinesi, uno dei figli più fanatici dei gruppi ultranazionalisti fioriti dalla guerra dei Sei Giorni uccise uno dei padri di quell'evento: il primo ministro Yitzhak Rabin, che era stato il capo di stato maggiore del esercito nel 1967, l'uomo chiave della vittoria. Per tutta la vita aveva temuto di essere eliminato da un arabo. Mai da Ygal Amir, un ebreo nato vicino a Tel Aviv nel 1970, che lo accusava di «tradimento».

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