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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.04.2017 Il film israeliano sulle tre amiche arabe che rivendicano la modernità
Ma questo è possibile perchè il film è stato girato in Israele

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 aprile 2017
Pagina: 39
Autore: Paolo Mereghetti
Titolo: «Tre amiche arabe con la voglia di ribellarsi a un destino segnato»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/04/2017, a pag. 39, con il titolo "Tre amiche arabe con la voglia di ribellarsi a un destino segnato", la recensione di Paolo Mereghetti.

In tutto il Medio oriente, l'unico Paese in cui è possibile produrre un film come "Libere, disobbedienti e innamorate" è Israele. Nello stato ebraico le minoranze, inclusa quella araba, godono di tutti i diritti di ogni cittadino. Il film sarà nelle sale italiane dal 6 aprile, avremo modo di vederlo e di parlarne ancora.

Ecco l'articolo:

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Paolo Mereghetti

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La locandina

Qual è il destino riservato alla donna araba? La prima e l’ultima scena di Libere, disobbedienti, innamorate (uno di quei titoli stupidamente allusivi che tanto piacciono ai distributori italiani perché dovrebbero far capire a che film vanno incontro e che invece lo tradiscono. Ma ci torneremo su), l’incipit e la fine — dicevo — lo raccontano con bella sintesi. All’inizio, una vecchia che sembra saperla lunga regala a una futura sposa i consigli per un matrimonio ben riuscito: non alzare mai la voce, essere gentile, fare buoni manicaretti, essere profumata e avere un corpo liscio (il dialogo si svolge durante una seduta di ceretta depilatoria), a letto fare sempre quello che dice e soprattutto «non fargli capire che sai il fatto tuo». Vecchia furbizia femminile di chi s’inchina e asseconda per trarre il meglio da una condizione spesso imposta dalla famiglia. L’ultima scena, invece, riprende le tre amiche protagoniste — l’avvocatessa Leila (Mouna Hawa), la studentessa Nour (Shaden Kanboura) e la barista Dj Salma (Sana Jammalieh) — appoggiate al bordo di un balcone, ognuna con lo sguardo perso nel vuoto che bevono o fumano, tutte e tre perse nel ricordo/elaborazione dei fatti che le hanno portate fin lì e che il passaggio dal movimento alla foto fissa finale ghiaccia nella sua forza metaforica e apre verso l’interrogazione del pubblico: che risposta tirare da quello che abbiamo appena visto?

L’opera prima della 35enne Maysaloun Hamoud, nata a Budapest ma sempre vissuta in Israele, racconta come si è arrivati a quella immagine finale, che cosa hanno dovuto vivere sulla propria pelle le tre amiche per ritrovarsi a perdersi nel vuoto o meglio, come dice il titolo originale Bar Bahr , sospese «tra terra e mare», in una specie di limbo dei sentimenti e della vita dove sembra difficile ritrovare la libertà, l’indipendenza e l’amore cui rimanda il titolo italiano. Allo spettatore non israeliano dirà probabilmente poco o niente la puntualizzazione geografica e familiare che la regista attribuisce alle sue tre protagoniste. Ma non è un caso se Nour viene da Umm al-Fahn (la stessa dove è cresciuta la regista), cittadina del distretto di Haifa abitata per la maggior parte da musulmani molto radicalizzati, se Salma è invece originaria di Tarshiha, da una famiglia cristiana che ha conquistato rispetto e importanza in un contesto arabo e se Leila è invece uscita da una famiglia di Nazaret musulmana ma non praticante.

Sono tre possibili facce di chi è arabo in Israele, alla ricerca di una «integrazione» o una «separazione» che comunque rafforzi la propria identità comunitaria. Percorso che invece le tre amiche finiscono per abbandonare o tradire, spinte da una coscienza che è soprattutto rispetto del proprio corpo e dei propri desideri. E che porterà ognuna di loro a confrontarsi con l’intransigenza e l’intolleranza che la religione, la tradizione e la sudditanza dal giudizio pubblico finiscono per imporre agli uomini. Leila sembra voler annegare nel fumo, nell’alcol e a volte anche nella cocaina, una vita professionalmente intensa ma sentimentalmente arida. Fino a quando non incontra Zaid: per lui torna anche a preparare da mangiare. Ma chi vincerà alla fine nel cuore dell’uomo: l’amore o la vergogna per una donna troppo libera e indipendente, che non rispetta nessuna delle «buone maniere» che tradizione e famiglia vorrebbero veder onorate? Nour invece è la quintessenza dell’ortodossia musulmana, hijab incluso. Il suo possessivo fidanzato vorrebbe che lasciasse la convivenza con le due amiche, che anticipasse la data delle nozze per tenersela stretta in casa. E lei sembra disposta a cedere, almeno fino al giorno in cui l’uomo svelerà la sua vera natura. Selma, invece, che si mantiene lavorando nei bar e facendo la dj ai rave, deve nascondere la sua omosessualità ai propri genitori, che minacciano — dopo l’ennesimo tentativo fallito di trovarle un marito — di «chiuderla in manicomio per guarirla dalla sua malattia». Come continueranno queste vite? La foto fissa finale non dà risposte, ma lo spettatore che si è appassionato a queste tre amiche non potrà esimersi dal riflettere sul destino femminile. In Israele e altrove.

Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@corriere.it

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