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Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.03.2017 La liberazione dei Lager
Corrado Stajano recensisce Dan Stone

Testata: Corriere della Sera
Data: 12 marzo 2017
Pagina: 35
Autore: Corrado Stajano
Titolo: «Quando i salvatori entrarono nei Lager. Storia di una liberazione senza felicità»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/03/2017, a pag.35, con il titolo "Quando i salvatori entrarono nei Lager. Storia di una liberazione senza felicità " la recensione di Corrado Stajano al libro di Dan Stone "La fine della Shoah e la sua eredità" (Einaudi ed.)

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Corrado Stajano   Dan Stone

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Si immagina la fine della Seconda guerra mondiale nei Lager nazisti come una festa, un tripudio di voci, le mani dei sopravvissuti vicino ai cancelli, sotto quell'indecente scritta Arbeit macht frei (II lavoro rende liberi) ad applaudire i soldati russi, americani, inglesi, di altre nazionalità finalmente arrivati. II sogno esaudito. Non fu così. Quegli scheletri di uomini e di donne dei Lager, con ancora una fiammella di vita nei corpi macerati, erano passivi, incapaci di provare anche un barlume di gioia. II libro di uno storico inglese, Dan Stone, uno dei maggiori studiosi di quell'obbrobrio, lo documenta nel suo nuovo saggio, La liberazione dei campi. La fine della Shoah e la sua eredità (Einaudi). È un libro atroce, che riempie di angoscia e ripropone le eterne amare domande prive di risposta: che cosa accadde mai nel Novecento nel cuore d'Europa? Come fu possibile una simile tragedia senza modelli? II britannico Dan Stone, che sull'argomento ha scritto una quindicina di libri, non è un accademico schizzinoso nei confronti della storia orale, come spesso accade. II suo libro è fondato su un'infinità di voci scritte e parlate, diari, fotografie. Ne fa buon uso: «Non mi sono servito, scrive, delle testimonianze in maniera acritica, bensì ispirandomi al principio generale di accogliere quelle che, nel novero delle numerosissime disponibili, tendono a concordare fra loro. Inoltre alle testimonianze s'accompagnano i rapporti e le relazioni ufficiali, i resoconti giornalistici, le dichiarazioni dei soldati liberatori e del personale incaricato dell'accoglienza, la documentazione fornita dalle organizzazioni assistenziali (...). Non ci sono molte ragioni per temere che i racconti dei testimoni oculari siano fasulli». «Alcuni aspetti della Shoah rimarranno sempre oscuri o comunque sfuggiranno alla nostra completa comprensione (...). Una sensazione è destinata a rimanere immutata nel tempo: l'alone di mistero che continua ad avvolgere l'enormità dei misfatti e di chi collaborò con loro». Quel giorno, dunque, nei Lager liberati, i più noti Auschwitz, Dachau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Buchenwald, Treblinka, nei meno noti, Gross-Rosen, Gusen, Theresienstadt, Flossenbürg, Ravensbrück, Sachsenhausen e negli innumerevoli piccoli campi e sottocampi che coprirono la Germania, la Polonia, l'Austria, l'Ungheria, la Slovacchia e i commissariati del Reich in Ucraina e nei Paesi baltici: che cosa accadde? «Soldati in uniformi straniere osservavano a bocca aperta, sbigottiti, dalle torrette dei loro carri armati la massa di rinsecchiti e spettrali spaventapasseri avvolti in luridi stracci a strisce (...). I soldati all'interno e sopra i carri armati sembravano spaventati. Si guardavano intorno come se non volessero scendere tra noi e mescolarsi con noi (...). Noi sembravamo troppo per loro. Questi occhi incavati e questi corpi scheletrici. Questi subumani puzzolenti. Noi» (Max R. Garcia, nederlandese, internato nel campo di Ebensee, vicino a Mauthausen). «Non sorridevamo, non eravamo felici, eravamo apatici... e i russi arrivarono. Entrò un generale, era ebreo. Ci disse di essere molto lieto perché questo era il primo campo in cui aveva trovato delle persone ancora in vita. Scoppiò a piangere, noi no. Lui piangeva e noi no» (Bela Braver, polacca trentenne, internata a Lichtewerden in Cecoslovacchia). «Avevo sempre pensato e immaginato tra me e me che questo momento avrebbe avuto qualcosa di particolarmente entusiasmante, magari di sconvolgente, ma soprattutto di festoso. Non provai nulla di tutto ciò. Nessuna felicità, nessun entusiasmo, solamente un vuoto disperante e una paura terribile, paura di andare a casa, paura suscitata dalla domanda di che cosa vi avrei trovato, chi avrei atteso invano. Questo occupava la mia testa (...). Ero incapace di essere felice» (Lisa Scheuer, liberata a Mauthausen dagli Alleati). È un libro crudo, questo di Dan Sto-ne, un verbale della memoria. Nei campi raggiunti dai russi il numero dei sopravvissuti era minore rispetto a quello dei campi raggiunti dagli Alleati. L'Armata Rossa liberò gli ebrei della Transnistria, in Ucraina, tra i fiumi Dnestr e Bug dove 380-400 mila internati erano stati trucidati, liberò Auschwitz dove era prigioniero Primo Levi, Häftling numero 174517 tatuato sul braccio sinistro. Nel suo La tregua ricordò così il momento della liberazione: «Quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi coi mitragliatori imbracciati (...). Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi». I nazisti, per tentar di distruggere le prove dei loro misfatti alla fine della guerra avevano fatto saltare in aria gli edifici di certi Lager e avevano organizzato le «marce della morte», come poi verranno chiamate, tremendi trasferimenti a piedi per giorni e giorni dei prigionieri malati, affamati, deboli — una nuova Shoah — anche per evitare che finissero in mano al nemico. Per questo l'Armata Rossa che avanzava da Est trovò certi campi deserti o semideserti. Ai tempi della Guerra fredda, si fece di tutto poi per cancellare l'importanza dell'Unione Sovietica, coi suoi 15 milioni di morti nella «guerra patriottica». Dan Stone affronta l'argomento: «Poiché l'Armata Rossa aveva effettivamente sconfitto il fascismo, è deplorevole che questo fatto sia stato obliterato seppure in un contesto di peraltro legittima condanna del comunismo. Diventa così necessario narrare la fine della Shoah per garantire il giusto riconoscimento del ruolo avuto dall'Armata Rossa». II libro tocca e approfondisce un'infinità di problemi legati alla Shoah. Gli ebrei furono il bersaglio del nazismo, ma non vanno dimenticate le altre vittime, i milioni di soldati russi uccisi, i politici, gli antifascisti, i comunisti, i militari, gli omosessuali, i rom. L'economia del Lager era profondamente intrecciata con le economie locali, nazionali e internazionali. Pochi storici, scrive Dan Stone, continuano a credere che la popolazione civile tedesca, austriaca e polacca delle zone vicine non sapesse cosa fossero quei campi coi loro fumi che uscivano dai camini. E non si capisce neppure come mai gli Alleati che possedevano minuziose piante aeree dei Lager non abbiano fatto nulla o quasi negli anni della guerra. Dan Stone racconta le differenze tra i campi di lavoro coatto, i campi di concentramento e quelli di sterminio, spiega chi furono i Kapo e i prigionieri-funzionari, fa rivivere l'orrore del Lager, le camere a gas, la fabbrica della morte, il suo odore. Racconta anche il dopo, i campi degli sfollati dove furono accolti i reduci dai Lager, soprattutto gli ebrei senza patria fino alla proclamazione dello Stato d'Israele, spiega le questioni del sionismo, i sospetti e i rispuntati conflitti tra le nazioni. Ma sono le voci delle vittime a restare impresse nella mente e a far male al cuore. Alisah Shek, una ragazza di 17 anni, prigioniera ad Auschwitz, due giorni prima della liberazione, il 27 gennaio 1945, scrive sul suo diario: «C'è ancora silenzio in me... Sono stanca, il mondo mi ha stancato per sempre»

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