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Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.02.2016 In Israele gli ospedali curano i 'nemici' senza chiedere da che parte stanno
Analisi di Maurizio Caprara

Testata: Corriere della Sera
Data: 10 febbraio 2016
Pagina: 16
Autore: Maurizio Caprara
Titolo: «Nell'ospedale che cura i 'nemici' senza chiedere da che parte stanno»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/02/2016, a pag. 16, con il titolo "Nell'ospedale che cura i 'nemici' senza chiedere da che parte stanno", l'analisi di Maurizio Caprara.

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Maurizio Caprara


Un siriano ferito è curato all'ospedale di Safed

Ha lo sguardo risoluto e i lineamenti maschili di un giovane uomo con aria da atleta. Capelli castani ricci e corti. Spalle e braccia muscolose, levigate come se frequentasse regolarmente una palestra. Inquadrato a mezzobusto potrebbe essere su un rotocalco, fotografato in una pubblicità di un profumo. Invece è seduto in un letto di ospedale, i muscoli se li è fatti lavorando da fabbro. Il ricovero si deve al suo mestiere successivo: soldato nell’Esercito libero siriano, quello rivale di Bashar el Assad. La guerra gli ha troncato la gamba sinistra e ferito la destra, coperta dalle lenzuola. E l’ospedale nel quale si trova non è nel suo Paese, ma in Israele. Lo Stato considerato da decenni in Siria un regno del male. Chi ha lanciato la bomba? «Un aereo russo», risponde il giovane con i ricci e lo sguardo serio, da persona alla quale dietro un viso fiero non mancano pensieri su nuove prove da affrontare. Lo chiameremo Hassan, perché nell’era di Internet sarà meglio non scrivere il suo vero nome esponendolo al rischio di ritorsioni quando tornerà a casa.

L’ospedale è lo Ziv di Safed (Zefat in ebraico), Galilea, un paesino con colline verdi di macchia mediterranea e palazzine biancastre di case popolari che si potrebbe scambiare per un pezzo di Puglia o di Grecia. Hassan è soltanto uno dei 570 siriani accolti in questo centro medico israeliano dal 2013: sia persone ferite nel proprio Paese durante una guerra fratricida alla quale partecipano anche militari stranieri russi e iraniani sia malati impossibilitati a ricevere cure adeguate in Siria. Il 70 per cento dei pazienti viene assegnato al reparto di ortopedia. Il viso di Hassan colpisce perché ricorda quanto un conflitto può sviare bruscamente il corso di una gioventù vitale. I suoi compagni di stanza, anche loro tra i venti e i trent’anni, hanno una gamba ciascuno avvolta in una sorta di gabbietta cilindrica di metallo opaco: uno dei due è senza un pezzo polpaccio, l’altro è privo di un piede.

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L'ospedale Ziv a Safed

«Quei metalli servono a evitare le amputazioni. La terapia dura mesi», spiega Khassis Shokry, chirurgo plastico dal perfetto italiano, un palestinese cristiano di cittadinanza israeliana. Grossolano imprigionare la realtà in schemi rigidi, in questa parte di mondo. Israele tende la mano a persone sofferenti di una terra con la quale non ha un trattato di pace. L’accoglienza ai siriani denota umana solidarietà, ma evidenzia una scelta strategica: se possibile attirare disponibilità verso Israele tra le popolazioni di frontiera di uno Stato ostile oggi di fatto smembrato, diverso dal monolite che era. Gli stereotipi poi sono inadeguati perché Shokry è tornato da poco da un viaggio in Europa per sciare a Saint Moritz, in corsia una donna delle pulizie ha i capelli coperti da un hejab nero musulmano, sulle autolettighe che hanno portato i feriti fin qui dal confine tra Siria e Israele sono dipinte stelle di Davide. Le diversità abbondano. Eppure basta una domanda a riportare in un punto dell’ospedale uniformità. Come immaginate il futuro della Siria? «Di male in peggio», rispondono tutti insieme Hassan e gli altri due siriani della stanza, uno studente di ingegneria con la gioventù mutilata da una mina, l’altro un agricoltore al quale non viene di chiedere particolari su perché gli manca carne in un polpaccio e un suo piede è contorto e strappato.

La frontiera si trova a pochi chilometri. Damasco sarebbe a meno un’ora di macchina. «I siriani ce li portano i militari israeliani. Arrivano combattenti, bambini, donne in gravidanza», racconta il chirurgo. All’esercito israeliano chi dà i feriti? «Ribelli siriani». L’impatto con Israele? «Per noi sono pazienti. Non domandiamo da quale parte stanno. Se uno ha idee, le blocca in mente», continua il dottor Shokry. Una parte dei pazienti viene ricoverata qui, altre in due ospedali più a sud. Per cambiare reparto si attraversa un ingresso sovrastato da cerchi di metallo. «Filtri dell’aria. In caso di attacchi a Israele chiudiamo il settore per proteggerlo da eventuali armi chimiche», spiega Shokry. Dal tetto dell’ospedale si vede la Siria. Per saperne di più raggiungiamo barellieri militari israeliani sul monte Bental, sopra il confine. Lungo la strada sulle alture del Golan, mucche al pascolo tra campi minati. Le mine furono sotterrate i soldati di Damasco nella guerra del Kippur, anno 1973.

«Mio padre è arabo, cristiano. Mia madre ebrea. Con i siriani da ricoverare parlo in arabo», dice Michel, 20 anni, divisa grigioverde e fucile mitragliatore a tracolla. Dal monte si notano la barriera che divide dalla terra dei feriti e la parte nuova di Quneitra, località siriana in mano all’esercito di Bashar el Assad, e Quneitra vecchia controllata dai ribelli. Nella seconda, tetti a terra di case distrutte. Non adesso, però. Nel 1973. «Laggiù si è sparato anche oggi, poco fa», riferisce un militare israeliano. C’è chi ci indica in quali zone della pianura sono i ribelli moderati, i ribelli salafiti, l’esercito regolare, le milizie più distanti affiliate a Daesh. Un mosaico scomposto. Effetto e a sua volta causa di assetti geopolitici in movimento, non più identici a prima.

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