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Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.12.2015 Sergio Romano e il 'problema israeliano': la solita disinformatzia
Il problema è di chi non riconosce Israele, non dello Stato ebraico

Testata: Corriere della Sera
Data: 23 dicembre 2015
Pagina: 53
Autore: Sergio Romano
Titolo: «I regimi arabi visti da noi: due pesi e due misure»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 23/12/2015, a pag. 53, con il titolo "I regimi arabi visti da noi: due pesi e due misure", la lettera di Mario Taliani e la risposta di Sergio Romano.

Sergio Romano rimprovera a Nasser, Gheddafi, Saddam Hussein e agli altri despoti che a lungo hanno governato i Paesi arabi di essere stati "incapaci di affrontare il problema israeliano". Oltre al fatto che quei Paesi hanno scatenato più volte guerre contro Israele (1948, 1956, 1967, 1973, 1990), una affermazione del genere sottintende l'esistenza di un "problema israeliano".
Romano ignora che il "problema" è nato e ancora esiste solo perchè i regimi arabi e i palestinesi rifiutarono e ancora rifiutano il diritto di Israele a esistere. Israele, dal canto suo, non ha mai negato il diritto dei Paesi arabi a esistere. Il conflitto - e le motivazioni che risiedono dietro al conflitto - è quindi unidirezionale.
A Israele, quindi, si può rimproverare soltanto di non volersi fare massacrare pacificamente, e quindi di opporre resistenza a coloro che ne vorrebbero l'annichilimento.
Un'altra vetta - in negativo - raggiunta da Romano.

Ecco lettera e risposta:

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Sergio Romano

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Israele è il problema fondamentale del Medio Oriente? Una posizione che oscilla tra enorme fesseria e antisemitismo

Mi saprebbe dire quali sono le vere colpe di Bashar al-Assad? Dall’alto delle nostre pregiudiziali democratiche, molti occidentali lo ritengono il responsabile di quanto sta avvenendo in Siria. Inclusa la presenza e la diffusione di quel «male assoluto» qual è il Daesh. Ma è davvero così? L’essere divenuto accidentalmente il successore del padre (suo fratello maggiore morì in un incidente) ne ha davvero fatto un criminale? Non essere riuscito a cambiare un regime dittatoriale in qualcosa di simile a una democrazia lo rende impresentabile? Non ne prendo le difese, ma perché Assad sembra essere diventato l’erede criminale di Saddam e di Gheddafi? I suoi 15 anni trascorsi al comando di uno «Stato canaglia» non credo proprio siano stati oggettivamente facili.

Mario Taliani
mtali@tin.it

Caro Taliani,
Il regime della famiglia Assad in Siria non è molto diverso da quello che fu creato da Nasser in Egitto, Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia. I fattori e la sequenza degli eventi sono quasi sempre gli stessi. La prima classe dirigente post-coloniale è spesso inetta, mal servita da una pubblica amministrazione mediocre, incapace di affrontare il problema israeliano e quelli da cui dipende lo sviluppo del Paese. La generazione successiva comincia a dare segni di impazienza. I giovani che hanno scelto la carriera militare, e possono contare sull’obbedienza dei loro soldati, organizzano un colpo di Stato, si sbarazzano delle vecchie oligarchie e scoprono molto rapidamente che la democrazia parlamentare è difficilmente realizzabile in Paesi dove le lealtà tribali e religiose sono più importanti di quelle dovute allo Stato e alle sue istituzioni.

Dopo avere conquistato il potere, desiderano soprattutto conservarlo. Esiliano o mettono in carcere i critici e gli oppositori. Si circondano di uomini appartenenti alla loro famiglia allargata e preparano i figli alla successione. Non sono privi di aspirazioni riformatrici e hanno ambiziosi progetti per un futuro modellato sulle società occidentali, ma si scontrano con gruppi religiosi, fra cui la Fratellanza musulmana, che li accusano di tradire così la Sharia e la lettera del Corano. Con questi, in particolare, sono durissimi. Nasser condannò a morte il loro leader; Hafez Al Assad, padre di Bashar, ne fece uccidere parecchie migliaia a Hama, una città fra Damasco e Aleppo, nel 1982; Gheddafi li perseguitò in Cirenaica. Le potenze occidentali stanno a guardare e i criteri a cui si attengono sono, grosso modo, questi. Se un regime arabo è disposto a forme di collaborazione politico-militare, possiede risorse utili all’economia di mercato o è nemico di uno Stato che l’Occidente considera peggiore, l’Europa e gli Stati Uniti chiudono un occhio e si astengono da qualsiasi interferenza. Se il regime persegue politiche giudicate pericolose per gli equilibri della regione o (come nel caso della Siria) stringe rapporti di forte collaborazione con uno Stato che molti in Occidente considerano potenzialmente nemico, le democrazie occidentali salgono in cattedra e pretendono il rispetto dei valori e dei diritti che sarebbero patrimonio delle società avanzate.

Mi sembra, caro Taliani, che il caso della Siria rientri in questa categoria. Bashar Al-Assad è probabilmente un riformatore fallito, incapace di strappare la rete degli interessi familiari e clientelari che hanno governato il Paese per molti anni. Ma non è certo peggiore del padre Hafez e ha avuto il grande merito di avere tutelato, durante la sua presidenza, la libertà di culto di tutte le chiese cristiane presenti in Siria da molti secoli.

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lettere@corriere.it

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