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Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.10.2014 In Israele non lo legge più nessuno, allora va in Usa
Lettera di Sayed Kashua - Risposta di Etgar Keret

Testata: Corriere della Sera
Data: 10 ottobre 2014
Pagina: 19
Autore: Sayed Kashua - Etgar Keret
Titolo: «'Ho lasciato Israele e ora ho paura' - 'Ti regalo un sogno: tre Stati per la pace'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/10/2014, a pag. 19, con il titolo "Ho lasciato Israele e ora ho paura", la lettera di Sayed Kashua; con il titolo "Ti regalo un sogno: tre Stati per la pace", la lettera di Etgar Keret.

Né lo scrittore arabo israeliano Sayed Kashua né il Corriere della Sera dicono il vero motivo dello spostamento di Kashua negli Stati Uniti, che è semplicemente un anno sabbatico dietro invito di una una Università americana. Niente più cronachette israeliane, sostituite da altrettante americane, che annoieranno egualmente i lettori di HAARETZ. Nessuna "fuga", dunque.


Quando i desideri non si accompagnano alla realtà.
Questa foto, che appare sulla pagina del Corriere della Sera di oggi, è falsa. Tutti noi siamo sostenitori della pace, naturalmente, ma non lo è la grande maggioranza degli arabi palestinesi, purtroppo. Se questa foto rappresentasse il reale desiderio dei palestinesi, già da tempo avremmo due Stati in pace.

Ecco la lettera di Sayed Kashua: "Ho lasciato Israele e ora ho paura"
seguita dalla risposta di Etgar Keret.


Sayed Kashua

Caro Etgar,

come stai? Come stanno Shira e Lev? Mi fa uno strano effetto scriverti. Proprio questa settimana ti pensavo. Ho parlato di te ai miei studenti di ebraico e alla fine ho mostrato loro uno dei tuoi racconti, «Spero che muoiano». Ci abbiamo messo un’ora per arrivare a metà. Sono volenterosi, i miei studenti, ma il loro ebraico è ancora zoppicante. Non è per il racconto che ho pensato a te. Ti ho pensato perché già si avverte nell’aria l’arrivo dell’inverno. Non è ancora cominciato, certo, siamo solo all’inizio dell’autunno, ma le giornate sembrano già più fredde di quelle invernali a Gerusalemme. Fa freddo qui, nel cuore dell’Illinois. Come sai, siamo arrivati qui d’estate o, per essere più esatti, siamo scappati qui d’estate, e tranne che per qualche maglietta a maniche corte e un paio di pantaloni, non siamo riusciti a portarci dietro niente da casa nostra. L’inverno è in arrivo e i ragazzi non hanno ancora vestiti caldi da mettere. «Su giacche e cappotti non faccio economie», ho detto a mia moglie. Lo sai, se per i cappotti non faccio economie, lo devo a te. Tu forse non te lo ricordi, ma quella volta che abbiamo viaggiato insieme in taxi da Lipsia a Berlino, forse quindici anni fa, mi hai raccontato la storia di tuo padre e una frase è rimasta scolpita nella mia memoria: «È sopravvissuto perché si era portato dietro il cappotto».
La fuga Ad ogni modo, ti informo che abitiamo a Champaign, nell’Illinois. Non c’è molto da fare o vedere, a parte l’Università e le vaste pianure coltivate a granoturco. Stranamente, i ragazzi si sono adattati molto prima di quanto pensassi. Tutto sommato mi sembrano felici. Lo capisco dalla fretta che mi mettono la mattina per salire in macchina, perché non vogliono far tardi a scuola. Anche mia moglie non si trova poi tanto male. E io, che ero così contento di essere partito, di aver messo in salvo la famiglia, lontano da quel posto tremendo chiamato Israele, di aver allontanato i miei cari dall’odore del sangue e della polvere da sparo, qualche volta mi sento sprofondare. Ho paura di mettere radici qui e ho paura del giorno in cui dovrò tornare a casa, a Gerusalemme, in Israele, in Palestina. La partenza è stata traumatica. Mi sentivo un profugo che scappava per salvarsi la pelle e la decisione di andarmene così in fretta l’ho presa ancor prima dello scoppio della guerra di Gaza. Quel giorno, quando il ragazzo palestinese è stato arso vivo a Gerusalemme, ho capito che non potevo più lasciar uscire i miei figli. Quel giorno, ho chiamato l’agenzia di viaggi e ho chiesto di farci partire il prima possibile. Purtroppo ci sono voluti diversi giorni e quella maledetta guerra era già scoppiata, e il razzismo che ho visto crescere sin dalla fine del 2000 è esploso con una furia terrificante. Avevo una paura tremenda, mi sentivo perseguitato. Lo sai benissimo, nella mia carriera sono al culmine del successo, c’era un film in uscita quest’estate e una nuova serie già in fase di realizzazione proprio allo scoppio del conflitto. Di colpo, sono diventato il nemico. All’improvviso ho avuto paura della ragazza che ci portava l’acqua sul set, Etgar, e persino l’assistente alla produzione, che non avevo mai incontrato prima di allora, mi ha sbarrato la strada e mi ha detto con fare superiore: «Dovremo stanarli tutti, uno a uno, a suon di bombe». Mia moglie ha sempre sostenuto che sono un pauroso e per di più con un disturbo paranoide della personalità. Eppure te lo giuro, Etgar, io l’ho visto come mi guardavano in modo diverso persino i miei più cari amici ebrei. Non avevo mai pensato di andare a vivere all’estero. Ho sempre respinto quella possibilità, e con orgoglio. «Qui devo combattere una battaglia». Ma quest’estate ho capito di averla persa. Quest’estate ho capito che non potevo più raccontare bugie ai miei figli, di come un giorno avrebbero goduto dei medesimi diritti degli altri cittadini in un Paese democratico. Quest’estate, ho capito che i cittadini arabi di Israele non avranno mai una vita diversa, ma al contrario, staranno peggio e i ghetti in cui sono confinati diventeranno solo più affollati, più violenti e più poveri con il passar degli anni.
La lingua perduta Però ho tanta paura a restare qui, che cosa potrà esserci mai per me in questo posto, se non riesco a scrivere? E che farò mai senza l’ebraico, che è l’unica lingua in cui so scrivere? Mi fa male dover constatare come, in questa ricerca di una nuova lingua, non riesco a considerare come valida alternativa l’arabo, che è la mia lingua materna. Ho saputo che tu e tua moglie avete passato giorni difficili perché avete osato esprimere un’opinione diversa, contraria alla violenza e alla guerra, e perciò ti scrivo ancora, forse perché mi aspetto da te un piccolo spiraglio di speranza. Puoi mentire se vuoi, ma ti prego, Etgar, raccontami una storia a lieto fine.
Un caro saluto,

Sayed

 

Etgar Keret: "Ti regalo un sogno: tre Stati per la pace"


Etgar Keret

Caro Sayed,

che piacere ricevere la tua lettera, ma quanta tristezza dopo averla letta. Conosco bene la cittadina dell’Illinois dove ti trovi adesso. Qualche anno fa, quando Lev era ancora alla materna, sono stato invitato a insegnare all’Università dell’Illinois e ci sono andato con tutta la famiglia per qualche settimana. Ancora oggi Lev dice che Roma e New York saranno pure città affascinanti, ma nessun posto al mondo è paragonabile a Urbana nell’Illinois e tutto per la nostalgia del bowling e della sala videogiochi (era rimasto colpito dal numero impressionante di distributori di bevande gassate). Perciò non mi sorprende affatto sentire che i tuoi ragazzi si siano adattati così bene e capisco anche perché tu faccia fatica a ritagliarti un tuo spazio laggiù. Mi chiedi una storia a lieto fine, allora eccola, ci provo.
Il racconto Il 2015 segnò una svolta storica in Medio Oriente e tutto grazie all’idea brillante di un rifugiato arabo-israeliano. Una sera lo scrittore era seduto in veranda nella sua casa a Urbana nell’Illinois e fissava le sconfinate distese di mais che si perdevano in lontananza. Alla vista di quell’immensità, gli venne in mente che forse i guai che travagliavano il suo Paese d’origine erano dovuti al semplice fatto che non c’era abbastanza spazio per tutti. «Se potessi soltanto mettere in valigia questi campi — si disse — ripiegandoli per bene per farceli stare tutti, me li porterei in aereo in Israele. Passerei la dogana seguendo la striscia verde per coloro che non hanno nulla da dichiarare, perché non avrei con me materiale sovversivo né altro da sottoporre all’ispezione. Una volta a casa non dovrei far altro che tirarli fuori ed ecco fatto, di colpo ci sarebbe abbastanza terra per i palestinesi e per gli israeliani». Era molto emozionato quando entrò in casa e si mise a spiegare la situazione alla moglie, ma questa si rifiutò di condividere il suo entusiasmo. «Scordatelo — gli disse con voce fredda — non funzionerà mai». Lo scrittore ammise che forse era necessario perfezionare alcuni particolari, come quello di convincere gli agricoltori dell’Illinois a cedergli tutti quei campi. «Non si tratta di questo, sciocco — gli disse la moglie —. Da una parte, i fanatici ultra-ortodossi direbbero che Dio ha promesso solo a loro tutti quei campi di mais e dall’altra i messianici razzisti sarebbero pronti a sostenere che quei campi gli sono stati assegnati in eredità sin dall’alba dei tempi. La realtà è, caro marito mio, che siamo nati in un luogo dove, anche se tanti vorrebbero vivere assieme in pace, ci sono ancora parecchie persone, da un lato e dall’altro, che si oppongono e faranno di tutto perché questo non succeda mai». La mattina seguente, lo scrittore sorseggiò in silenzio il suo schifoso caffè americano, senza nemmeno dire buongiorno alla moglie (era ancora offeso per quello «sciocco» del giorno prima) e dopo aver accompagnato i bambini a scuola, si sedette al computer per scrivere un racconto. Ma mentre dipanava la sua storia, s’imbatté in un’idea brillante, cento volte migliore della precedente, su come risolvere i guai del Medio Oriente. Se il problema stava non nel territorio, bensì nella gente, bastava modificare la «soluzione dei due Stati» in una «soluzione dei tre Stati», in modo che i palestinesi sarebbero vissuti nel primo, gli israeliani nel secondo, mentre i fondamentalisti religiosi, i razzisti e tutti coloro che volevano la guerra avrebbero occupato il terzo. La moglie si mostrò meno sprezzante verso questo piano, per non parlare poi di Barack Obama, che lo scrittore aveva casualmente incontrato in un locale vicino a una stazione di rifornimento, alla periferia di Urbana, nell’Illinois, e che si era dichiarato decisamente a favore.
Il terzo Stato In meno di un decennio furono creati tre Stati, uno accanto all’altro, in quell’angolino del Medio Oriente: lo Stato di Israele, lo Stato della Palestina e la Repubblica de La-forza-è-la-sola-lingua-che-capiscono, un posto dove la guerra civile infuriava senza sosta, frequentato solo dai trafficanti d’armi e dai giornalisti. Lo scrittore, uomo assai modesto, rifiutò educatamente il Premio Nobel che gli veniva offerto, fece la valigia e se ne tornò con la famiglia nella sua vecchia casa in Israele. E ogni volta che Barack Obama sbarcava in Medio Oriente, nell’ennesimo tentativo di riportare la pace nella Repubblica de La-forza-è-la-sola-lingua-che-capiscono, si fermava a far visita allo scrittore che era riuscito, da solo, a restituire la pace al suo popolo. Poi andavano insieme sul balcone dello scrittore, che si affacciava su una vallata coltivata a terrazze, e tutti e due si gustavano in silenzio un bel piatto di pannocchie. Ecco il racconto. Non sono sicuro che sia davvero un racconto, né posso giurare sul suo ottimismo, ma non so fare di meglio. Stai attento alla salute e, qualunque cosa accada, non cercare scorciatoie quando si tratta di cappotti.
Con affetto,

Etgar

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