|
| ||
|
||
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/09/2014, a pag. 53, con il titolo "Abuso di 'terrorismo': meglio evitare parole sbagliate", la risposta di Sergio Romano alla lettera di Ferdinando Fedi.
Gli appartenenti a Isis vengono in più ambiti definiti terroristi mentre è opinione di molti giuristi internazionali che per metodi di combattimento tipici delle battaglie tradizionali e per l’effettivo controllo del territorio conquistato essi possano essere considerati parte di un conflitto ai sensi delle convenzioni di Ginevra e dei successivi protocolli aggiuntivi. Tale collocazione consentirebbe di sottoporre le forze di Al-Baghdadi alle regole del diritto umanitario e qualificare gli illeciti commessi ai danni dei civili come crimini internazionali non assoggettabili solo alle giurisdizioni penali interne, con garanzia di pene più certe e severe.
Pur essendo difficile raggiungere un consenso sulla definizione giuridica di terrorismo e sulla identificazione degli atti qualificabili come terroristici sarebbe interessante conoscere un suo parere a riguardo anche al fine di superare l’ambiguità terminologica che si è creata.
Caro Fedi, La parola «terrorismo» evoca società segrete, reti clandestine, cellule composte da un numero limitato di militanti, attentati che colpiscono soprattutto le popolazioni civili. Di una organizzazione terroristica è possibile conoscere il nome del leader e del suo più diretto collaboratore, come nel caso di Al Qaeda, ma il suo organigramma è un segreto gelosamente custodito. Isis è alquanto diverso. Ha un esercito che secondo stime della Cia (lo ha scritto Guido Olimpio sul Corriere del 13 settembre) si comporrebbe di forze comprese fra i 20.000 e i 31.500 uomini. Si proclama «Stato» e ha un capo che si indirizza pubblicamente al mondo. Occupa una parte del territorio siriano e di quello iracheno. Ha una sorta di capitale provvisoria (la città siriana di Raqqa nel Nord del Paese) che è nelle sue mani, ormai, da un anno. Là dove arriva con le sue truppe, installa organi amministrativi e una sorta di giustizia sommaria fondata sulla sharia (la legge coranica). I suoi metodi sono spietati, ma tipici delle guerre di religione e non diversi da quelli dei crociati che conquistarono Gerusalemme nel 1099 o massacrarono tutta la popolazione della città occitana di Béziers durante la sanguinosa guerra contro l’eresia cristiana dei catari nel 1209. Parlare di terrorismo nel caso dell’Isis è concettualmente sbagliato. Abbiamo il diritto e il dovere di combatterlo perché rappresenta una grave minaccia a quel tanto che ancora rimane della stabilità mediorientale. Dobbiamo evitare che il suo fanatismo contagi le comunità musulmane in Occidente. Ma «terrorista», in questo caso, è soltanto un artificio retorico, la parola con cui i governi demonizzano il nemico per dimostrare la propria fermezza e giustificare le misure d’eccezione che si accingono a prendere. Queste cose non accadono soltanto nel contesto medio-orientale. Nelle scorse settimane, durante gli scontri in numerose località dell’Ucraina orientale, i ribelli filorussi venivano definiti «terroristi» dal governo di Kiev e quest’ultimo, a sua volta, veniva definito «fascista» dai dirigenti del Cremlino. Le due definizioni erano egualmente infondate e hanno avuto probabilmente l’effetto di rendere il conflitto ancora più emotivo e viscerale. Quando devono definire il loro avversario, gli uomini politici farebbero bene a ricordare che anche le parole possono uccidere. Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@corriere.it |
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |