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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.06.2012 Enrico Rocca, patriota ebreo tradito due volte
Claudio Magris racconta la sua vita

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 giugno 2012
Pagina: 52
Autore: Claudio Magris
Titolo: «Il tragico destino di Enrico Rocca, patriota ebreo e tradito due volte»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, 09/06/2012, a pag.52, con il titolo "Il tragico destino di Enrico Rocca, patriota ebreo e tradito due volte", una interessante rievocazione di Claudio Magris della figura di Enrico Rocca, germanista goriziano (1895-1944), morto suicida,  che Magris racconta in un articolo di grande interesse.  Segnaliamo il libro, che ha dato origine al pezzo di Magris:
 Enrico Rocca, «Diario degli anni bui», a cura di Sergio Raffaelli e corredato da un saggio introduttivo di Mario Isnenghi, editore Gaspari, Udine 2005, pagine 279, 12,80


La copertina del libro

Ecco l'articolo:

È doloroso venire espulsi dalla patria, dalla propria patria. Ma è forse ancor più doloroso sentire di dover espellere da sé la propria patria, per la quale si è vissuti e magari si è stati pronti a morire. Così è accaduto a Enrico Rocca, patriota trasformato suo malgrado dalle leggi razziali in «straniero interno»; così è accaduto ad altri come lui, ad esempio — ma non solo — a quegli ebrei patrioti italiani, appassionatamente irredentisti prima e durante la Prima guerra mondiale e più tardi gettati via come spazzatura dalle leggi antisemite del '38, da quell'Italia per la quale erano stati pronti a sacrificarsi e da quel fascismo in cui alcuni di essi all'inizio avevano creduto.
Questo è stato il destino di Enrico Rocca, singolare, originale e assai notevole intellettuale, scrittore meno noto di quanto meriterebbe, la cui parabola e il cui pensiero hanno un'incisiva attualità, come rivela il suo postumo Diario degli anni bui, pubblicato sette anni fa a cura di Sergio Raffaelli con un interessantissimo saggio introduttivo di Mario Isnenghi.
Un'edizione precedente del 1964 — curata da un altro affascinante esponente della grande generazione triestino-goriziana di frontiera degli Slataper, Stuparich, Marin, Devescovi e altri, ovvero da Alberto Spaini, — era rimasta, scrive Isnenghi, «semiclandestina».
Rocca attraversa, con crescente smarrimento, ferma coerenza morale e rara capacità di riconoscere il vuoto di tanti suoi ideali professati con passione, gli anni bui della Seconda guerra mondiale. Egli vive e racconta dall'occhio del ciclone ingorghi ancora centrali della nostra storia e insieme del nostro futuro: la «morte della patria», il destino dell'Italia in rapporto all'Europa, il senso dell'idea di nazione nella disgregazione della civiltà europea stravolta da nazionalismi e totalitarismi, il naufragio del mondo di ieri e le prospettive di quello di domani.
Nato a Gorizia, allora appartenente all'impero absburgico, nel 1895, cugino di Michelstaedter, Enrico Rocca aveva ereditato dal padre la passione irredentista italiana, mentre la madre era devota agli Absburgo, in cui — come scrive il figlio stesso — vedeva i liberatori degli ebrei dal ghetto e i garanti di un'amministrazione ordinata, mentre diffidava degli italiani, «chiacchieroni e bugiardi».
Il più alto irredentismo triestino e goriziano si nutre di quest'ambivalenza, che è propria pure di Rocca, il quale guarda all'Italia come a un ideale criticando perciò ancor più duramente l'Italia reale e si nutre spiritualmente non solo della cultura italiana, ma anche, talora soprattutto, della cultura di quell'impero absburgico che vuole distruggere o almeno da cui vuole staccarsi.
Rocca è scrittore e giornalista, soprattutto germanista: la sua veloce, essenziale e profonda Storia della letteratura tedesca dal 1877 al 1933 è uno dei più vivi e affascinanti libri su quel periodo geniale e fatale; la sua pennellata impressionista coglie l'essenziale di opere ed autori fondamentali. È stato uno dei primi ad accorgersi della specificità della letteratura austriaca rispetto a quella tedesca, come testimoniano alcuni suoi acutissimi saggi, cui — in particolare, ma non solo, quello su Joseph Roth, allora assai poco conosciuto — siamo tutti debitori ed io in particolare. Rocca sapeva analizzare e insieme rinarrare la letteratura, trasmettendone il senso più complesso, come è stato messo in evidenza dal Quaderno speciale di «Studi Germanici» curato da Angela Maria Bosco e Sergio Raffaelli nel 2009.
Il Diario degli anni bui riguarda la Seconda guerra mondiale ma illumina l'intera parabola di Rocca e, attraverso di lui, della sua generazione di frontiera e di tanti italiani in generale. È una testimonianza personalissima che diviene, scrive Isnenghi, «diario collettivo».
Irredentista e interventista nel 1915 come molti altri delle più differenti provenienze ideologiche, di destra come di sinistra, fraterno amico di intellettuali politicamente ben diversi da lui come Ernesto Rossi, Rocca aderisce ai primissimi inizi sansepolcristi del fascismo, ma se ne distacca rapidamente e amaramente, già prima della marcia su Roma e ben prima delle leggi razziali che lo colpiscono personalmente e dell'entrata in guerra al fianco della Germania nazista, cosa che egli giudica un obbrobrioso tradimento contro l'umanità e lo stesso ideale patriottico.
È un amarissimo, duplice disinganno. Il nazionalismo degenerato in fascismo nega quella stessa Italia che egli, come altri, aveva sognato e per la quale si era battuto; è il dramma di quella grande, generosa generazione di italiani di frontiera che — come ha narrato Renate Lunzer nel suo magistrale affresco epico e analitico Irredenti redenti — hanno sognato la redenzione politico-nazionale della loro terra e, una volta ciò avvenuto, si sono trovati ancor più «irredenti» di prima, frustrati dalla desolante scoperta di un'Italia radicalmente diversa da quella in cui avevano creduto.
Nel dopoguerra Rocca si sente «triste ed estraneo», in un posto di galera.
Al disinganno si unisce un senso di colpa; il sentimento — nel 1940, «oggi che l'Italia sta per marciare con i tedeschi contro se stessa e contro la libertà del mondo» — di aver contribuito, battendosi per l'entrata in guerra nella Prima guerra mondiale, a quel pervertimento della patria e dell'Europa. Il fascismo — che, scrive Rocca, ha «rifatto» gli italiani peggiorandoli in modo disastroso — appare la «nemesi» di quella colpa inconsapevole e generosa, generatrice di conseguenze che d'altronde non si potevano prevedere: «Ogni nostra azione è un seme di cui non si conosce il frutto. E allora, in quel '14 lontano, noi giovani gettammo certo una causa nel mondo di cui vediamo gli ultimi, amarissimi effetti».
All'Italia che annette Lubiana Rocca può dire solo «addio». Anche questa è una nemesi di quella originaria inadeguatezza nel rapporto con gli slavi che era stata il limite di quella generazione di frontiera.
Nel diario rivivono quegli anni bui e quelli che li precedono; anni di travaglio materiale e interiore, di lavoro creativo e contraddittorio, nel giornalismo e nella radiofonia, che il fascismo aveva molto sviluppato e in cui Rocca era particolarmente competente. Egli guarda sempre all'Europa e all'unità europea, fra l'altro in una fraterna vicinanza e collaborazione con Stefan Zweig, del cui ideale «erasmiano» egli vede peraltro la nobiltà ma pure l'inadeguatezza nella terribile realtà del momento.
Anni di tragedia anche interiore, perché è tragico dover augurarsi la sconfitta della patria. Tragica è la morte di Rocca che si suicida il 20 luglio 1944. In quella tragicità e nella coraggiosa chiarezza con cui egli la affronta, pure in un percorso così contraddittorio, c'è un grande amore per l'Italia e c'è il germe di un nuovo patriottismo che ritrovi le origini mazziniane e risorgimentali, inverandole in una modernità europea.
Un'esigenza — tutt'ora purtroppo insoddisfatta e dunque tanto più viva — di andare oltre la «morte della patria».

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