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Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.12.2010 Il bavaglio a Panahi che umilia l'Iran
Il commento di BHL, ma in occidente i loquaci difensori della libertà di espressione stanno zitti

Testata: Corriere della Sera
Data: 22 dicembre 2010
Pagina: 1
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Il bavaglio a Panahi che umilia l'Iran»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, 22/12/2010, a pag.1-48, il commento di Bernard-Henri Lévy sulla condanna del regista iraniano Jafar Panahi, con il titolo " Il bavaglio a Panahi che umilia l'Iran". 
Il regime iraniano continua a permettersi ogni forma di repressione, si levano alcune voci di protesta, ma l'insieme dell'opinione pubblica occidentale non manifesta alcun sdegno. Si va dai complici, come Gianni Vattimo, recente gradito ospite di Teheran, ai loquaci difensori della libertà di espressione, forti e vigorosi se si tratta di criticare le democrazie, ma guardinghi se di mezzo c'è un regime islamico.
Ecco l'articolo:


Jafar Panahi

Nel condannare al carcere Jafar Panahi, i governanti iraniani hanno scatenato la guerra ai loro artisti e dichiarato fuorilegge il loro cinema che era, e resta, uno dei più grandi al mondo. Costoro hanno dichiarato fuorilegge il loro stesso popolo, o perlomeno quella percentuale considerevole della cittadinanza che diciotto mesi or sono aveva votato a favore di Moussavi. Correva voce, per l’appunto, che Panahi volesse girare un film su queste vicende Prima I mullah hanno inventato un reato— l’intenzione di fare un film — che nemmeno gli stalinisti avevano osato immaginare. E hanno inventato una punizione— vent’anni di bavaglio, al termine di sei anni di galera — cui avevamo assistito finora solo nelle dittature fittizie di Alfred Jarry e George Orwell. Così facendo, si sono messi da soli al bando delle Nazioni, lasciando intendere che al termine della folle corsa nella quale si sono lanciati, la nostra opinione, il nostro giudizio e addirittura una nostra eventuale condanna non contano più nulla per loro. Hanno perso la testa. Hanno perso l’amore per il loro Paese, per i suoi valori, per la sua cultura. E da questo momento in poi, saranno capaci di tutto. Si sono lasciati invischiare in una spirale di paranoia e di demenza che rischia di sfociare in crisi, dissenso, implosione — ma anche, ahimè, in qualcosa di molto peggio. Possiamo permettere che avvenga il peggio? Siamo disposti ad assistere, impotenti, alle prossime provocazioni di questo Stato degenerato in autismo? E chi sarà la prossima vittima di questi fanatici che si sono autoincoronati alla guida del Paese, dopo Sakineh, dopo Panahi, dopo Blogfather (il blogger condannato a 19 anni e mezzo di prigione per aver difeso e illustrato le meraviglie di Internet ai giovani del suo Paese), dopo Nasrin Sotoudeh, l’eroica avvocatessa anche lei incarcerata e che il regime tenta di stritolare, come tutti gli altri? L’enormità della provocazione — o meglio, di tutta una serie di provocazioni — richiede una risposta adeguata. Innanzitutto sul piano dei principi: gli iraniani fabbricano simboli, producono colpevoli alla catena di montaggio, capri espiatori sui quali graverà tutto il peso della macchina repressiva. Ebbene, non bisogna cedere su questi casi in apparenza scollegati tra loro, bensì batterci anche noi — come se la posta in gioco fosse l’avvenire dell’Iran e del mondo intero — per la liberazione oggi di un cineasta, domani di un blogger incarcerato, o ancora di una maestra azera condannata alla lapidazione. Bisogna vincerla, questa battaglia dei simboli, proprio perché quei pazzi furiosi l’hanno scatenata. In secondo luogo, sul piano politico: le democrazie, le Nazioni Unite, il mondo intero, una volta tanto, davanti alla crisi ivoriana, hanno saputo dimostrare come intervenire e quali sanzioni adottare per piegare uno stato canaglia. Ahmadinejad non è da meno di un Laurent Gbagbo: sbattere in galera Jafar Pahahi o Mohammad Rasoulof è altrettanto scandaloso davanti alla legge e al diritto internazionale che truccare le elezioni (e non dimentichiamo che Ahmadinejad aveva già rubato il voto agli iraniani nel giugno del 2009, prima ancora di condannare Panahi). Allora trattiamo l’uno come trattiamo l’altro: congeliamo i beni del regime iraniano come abbiamo fatto con il regime ivoriano; dichiariamo Ahmadinejad, Khamenei, le loro famiglie, i loro ministri come persone indesiderate all’estero; e finalmente, applichiamo il sistema delle sanzioni così come andrebbe applicato e saremo certi che il regime non sarà in grado di sopravvivere per più di sei mesi. Perché esso dipende dalla benzina che è costretto a importare: chiudere le pompe dei distributori farebbe indubbiamente scoppiare il malcontento che serpeggia nelle strade di Teheran, Ispahan, Tabriz e Qom. Il regime dei mullah vive grazie al petrolio che il mondo intero, ma soprattutto gli Stati Uniti, acquistano dall’Iran. E gli Stati Uniti— particolare poco noto— hanno appena terminato di rimpinguare le loro riserve a un livello tale che consentirebbe loro di boicottare per anni il petrolio dei mullah. Ad ogni modo, non ci resta altra scelta: la linea della fermezza, oggi, o aspettare la tragedia, domani.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

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