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Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.11.2010 Sakineh sarà lapidata domani, il figlio e l'avvocato sono ancora in carcere
L'Occidente blocchi l'Iran. Commento di Bernard-Henri Lévy, cronaca di Stefano Montefiori

Testata: Corriere della Sera
Data: 02 novembre 2010
Pagina: 50
Autore: Bernard-Henri Lévy - Stefano Montefiori
Titolo: «Le sfide dell’Iran, Stato gangster vanno raccolte. E fermate - Imminente l’impiccagione di Sakineh. I rifugiati politici iraniani lanciano l’allarme»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/11/2010, a pag. 50, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Le sfide dell’Iran, Stato gangster vanno raccolte. E fermate ", a pag. 18, l'articolo di Stefano Montefiori dal titolo " Imminente l’impiccagione di Sakineh. I rifugiati politici iraniani lanciano l’allarme ".

Bernard-Henri Lévy - " Le sfide dell’Iran, Stato gangster vanno raccolte. E fermate "

Dopo Sakineh, suo figlio... Il fatto è enorme e merita di tornarci su. Sajjad, il figlio di Sakineh, si batte da mesi perché sia riconosciuta l’innocenza della madre e le sia evitata la morte per lapidazione, alla quale il potere iraniano l’ha condannata. L’11 ottobre Sajjad dà l’ennesima intervista, a giornalisti tedeschi, in cui tenta, una volta ancora, di prendere a testimone l’opinione pubblica mondiale dell’ingiustizia di cui sua madre è vittima. Sapendo, senza osare crederci, che la sua lotta pacifica, i suoi ripetuti contatti con giornalisti stranieri e il suo amore filiale possono mettere pure se stesso in pericolo, è diffidente e per precauzione fissa l’appuntamento nello studio dell’avvocato Hutan Khian che, anche in Iran, è in linea di principio un luogo protetto. Nel bel mezzo dell’intervista, Mina Ahadi, presidente del Comitato internazionale contro la lapidazione, che per telefono fa da interprete a distanza, sente all’improvviso un gran brusio, constata che la comunicazione si interrompe e capisce che qualcuno ha fatto irruzione nello studio e sta portando via intervistato, intervistatori e avvocato.

E come reagiamo noi all’annuncio di questa «retata»? Ci preoccupiamo di sapere dove siano finiti Sajjad e Hutan di cui, da quel giorno, non si hanno notizie? No. Nessuna reazione, o quasi. Tutti, in Europa e negli Stati Uniti, hanno l’aria di trovare la cosa e la situazione perfettamente normali. Nessuno, quando il governo tedesco cerca di informarsi sul luogo di detenzione dei suoi due cittadini, si cura di sapere dove si trovino i due iraniani e nemmeno se siano ancora in vita. Per la prima volta dall’inizio di questa vicenda, possiamo dire che Sakineh e i suoi cari sono, davvero, soli al mondo.

Beninteso, non ho assolutamente la pretesa di detenere la formula magica per lottare contro questa brutalità sbalorditiva. E nessuno sa come replicare a uno Stato capace di sfidare, senza preoccuparsi di dare un benché minimo inizio di spiegazione, le leggi più elementari di umanità e governabilità. Ma almeno possiamo sperare che le centinaia di migliaia di donne e uomini che, sul sito di La

Régle du jeu o altrove, hanno firmato per Sakineh, si mobilitino di nuovo, protestino, gridino la loro indignazione, scrivano alle autorità del loro Paese, se non alle autorità iraniane: i canali esistono, i messaggi saranno trasmessi. Almeno possiamo chiedere a tutti coloro che, fra noi, in questi tempi del Visibile Onnipotente, hanno una parcella di visibilità, e quindi di potere, di mettere il loro micropotere al servizio di questa famiglia martire: è quel che ha fatto recentemente, a Madrid, Marco Ferri — detto il Falco — quando, all’inizio della partita di Champions League, che vedeva in campo il Real Madrid e il Milan, è piombato nello stadio, davanti alle telecamere, indossando una maglietta blu da Superman con la scritta «Sakineh free». È chiedere troppo, per esempio, alle migliaia di studenti francesi che in questi giorni scendono in piazza sfilando dietro a striscioni con la frase «Mio nonno m’ha preso il lavoro», di prevedere anche striscioni con il ritratto del piccolo controllore sugli autobus di Tabriz che ha la loro stessa età, che potrebbe essere loro fratello e il cui solo crimine è aver difeso la madre? Nemmeno i governanti che avevano dichiarato (Nicolas Sarkozy in testa) che la giovane donna era sotto la «responsabilità» del loro Paese possono fermarsi qui; è inimmaginabile che si limitino a quello che ormai, tenuto conto dell’escalation iraniana, è solo un miserabile auspicio pietoso; sarebbe indecente che non adeguassero, se non i loro atti, almeno le loro parole al nuovo contesto creato da questa provocazione, ripeto, sbalorditiva.

L’arresto di Sajjad merita una dichiarazione del ministro degli Esteri Bernard Kouchner. L’aspettiamo. Il gesto di prendere il figlio in ostaggio per uccidere più tranquillamente la madre, l’affermazione tranquilla, e davanti al mondo intero, di un delitto di filiazione che estende alla famiglia una colpevolezza immaginaria, meritano (in Francia, Spagna, Italia, e anche negli Stati Uniti) il richiamo in patria di qualche ambasciatore. Cosa aspettiamo?

Il cinismo, la sfida, il modo (perché anche di questo si tratta) di mettere alla prova la nostra resistenza esigono gesti forti, capaci di mostrare che la comunità internazionale non si rassegna al fatto che uno Stato importante come l’Iran si comporti alla stregua di uno Stato gangster: l’Iran importa la propria benzina; sappiamo che il Bazar, quindi il regime, esploderebbe se il prezioso carburante venisse a mancare, fosse solo per una o due settimane; perché non invitare gli esportatori francesi, ed europei, ad adottare una posizione comune di fermezza?

Quel che è certo è che non si può non fare nulla e che, avendoci il potere iraniano lanciato una sfida insensata, non raccoglierla sarebbe un errore e una sconfitta, appena meno insensati.

Sakineh è una donna fra altre donne, vittima dell’arbitrio ordinario di un regime allo stremo. Sajjad è uno di quegli individui «senza importanza collettiva» (Sartre che cita Céline), il cui destino, lo sappiamo, è spesso quello di essere, ahimè, stritolati dalla grande ruota della Storia. Solo che l’una e l’altro sono diventati simboli e che questi simboli sono la posta in gioco di una battaglia che non possiamo più perdere senza rischiare di arrivare umiliati, quindi indeboliti, ai prossimi appuntamenti che ci attendono con l’Iran. Non abbiamo più scelta. Bisogna esigere, senza indugi, la liberazione di Sajjad, Houtan Khian e Sakineh.

Stefano Montefiori - " Imminente l’impiccagione di Sakineh. I rifugiati politici iraniani lanciano l’allarme  "

PARIGI — Il regime di Teheran sembra avere deciso di stringere i tempi, la vita di Sakineh è più in pericolo che mai. Gli ambienti dei rifugiati iraniani in Francia e in Italia riferiscono di un’accelerazione: la donna accusata di adulterio e di omicidio potrebbe essere impiccata nelle prossime ore, forse domani. «Ho ricevuto un messaggio da una fonte del tutto attendibile a Tabriz — dice Davood Karimi, presidente dell’Associazione rifugiati politici iraniani in Italia —. Dagli uffici giudiziari è trapelata la notizia che Teheran ha dato ordine di non rilasciare nei prossimi giorni il figlio e l’avvocato di Sakineh, entrambi in carcere dal 10 ottobre scorso, perché occorre trattenerli fino all’avvenuta esecuzione della madre».

«Abbiamo ricevuto anche noi indicazioni di questo tipo — conferma la presidente del Comitato internazionale contro la lapidazione Mina Ahadi —. Ci sarebbe una lettera dell’Alta Corte di Teheran a Tabriz in cui si chiede di non rilasciare il figlio di Sakineh ed il suo avvocato fintanto che la donna non sarà giustiziata».

Sempre ieri il sito iraniano Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, ha annunciato «la confessione» del figlio di Sakineh. Sajjad Ghaderzadeh, 22 anni, disperato difensore dell’innocenza della madre e per questo da 22 giorni torturato in carcere, accuserebbe ora il suo avvocato e compagno di prigionia Houtan Kian di averlo strumentalizzato «per trovare asilo all’estero». «Houtan Kian ha messo me e mia sorella in contatto con Mina Ahadi — dichiara Sajjad —. Una comunista e controrivoluzionaria, abitante in Germania e portavoce del Comitato internazionale contro la lapidazione, vicina agli ambienti controrivoluzionari stranieri». Secondo Raja News, prima fonte filo-governativa a riconoscere l’arresto del figlio e dell’avvocato di Sakineh, Sajjad avrebbe ammesso l’esistenza di una macchinazione occidentale per montare il caso di Sakineh allo scopo di screditare il regime iraniano. Una nuova mossa per fare definitivamente il vuoto attorno a quanti tentano di salvare la vita di Sakineh.

«Il giorno prima del suo arresto, l’avvocato Houtan Kian è stato interrogato per otto ore — dice Mina Ahadi —. Avrebbe potuto fuggire ma non l’ha fatto per non lasciare a loro stesse Sakineh e le altre condannate alla lapidazione».

La 42enne Sakineh, frustata in carcere, è stata costretta in passato a firmare la sua confessione e a comparire in televisione per autoaccusarsi. La stessa tragica sorte sembra ora toccare a suo figlio Sajjad, che prima dell’arresto aveva corso enormi rischi moltiplicando gli appelli all’Occidente. Nei primi giorni di ottobre a Sajjad è stato consigliato di lasciare l’Iran per mettersi in salvo. Lui ha rifiutato per non abbandonare la madre.

Sakineh si trova oggi senza difesa legale: raggiunto da un mandato di cattura, all’inizio di agosto Mohammad Mostafei è fuggito dall’Iran e si trova oggi in Norvegia, dove ha ottenuto asilo politico. Houtan Kian è stato arrestato, e nessun altro avvocato in Iran ha accettato l’incarico. Il comitato contro la lapidazione parla di «ore cruciali» e chiede la ripresa della mobilitazione internazionale.

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