venerdi 19 aprile 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera Rassegna Stampa
13.08.2010 L'Iraq non è ancora pronto per il ritiro degli Usa
Cronaca del Foglio, intervista a John Burns di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 13 agosto 2010
Pagina: 1
Autore: La redazione del Foglio - Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Americani restate a Baghdad - L’America non può restare: ma si rischia la guerra civile»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/08/2010, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Americani restate a Baghdad ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'intervista di Lorenzo Cremonesi a John Burns, dal titolo " L’America non può restare: ma si rischia la guerra civile ".
Ecco i due articoli:

Il FOGLIO - " Americani restate a Baghdad "


Babaker Zebari, generale iraqeno

Baghdad. Parole subito rimangiate, ma che ormai sono state dette. Il comandante in capo delle Forze armate irachene, il generale Babaker Zebari, ieri si è lasciato sfuggire che gli americani stanno lasciando l’Iraq troppo presto. In conferenza stampa ha detto: “Il ritiro per ora sta andando bene perché ci sono ancora gli americani, ma a partire dal 2011, quando se ne andranno via, comincerà il problema. I politici devono trovare un modo per riempire il vuoto dopo il 2011. Se me lo chiedessero, direi: l’esercito americano deve restare almeno fino a quando quello iracheno sarà pronto, nel 2020”. Tra dieci anni. Ieri il suo portavoce ha tentato una debole smentita, come se quella di Zebari fosse una voce isolata: in realtà a Baghdad la pensano in molti così, il ritiro è prematuro, la situazione non lo permette ancora e se gli americani sembrano così decisi ad andarsene non è per una valutazione sui rischi: è piuttosto perché a Washington l’Amministrazione democratica ha paura di perdere le elezioni di midterm a novembre e vuole poter dire che la promessa elettorale sull’Iraq è stata mantenuta. Persino l’ex ministro degli Esteri al tempo del dittatore Saddam Hussein, Tareq Aziz, ha detto che gli americani andandosene “lasciano l’Iraq ai lupi”: un paese esposto al ritorno della violenza dei terroristi di al Qaida. E’ il paradosso con cui l’Amministrazione Obama deve fare i conti: persino l’uomo di fiducia di Saddam critica gli americani perché se ne stanno andando. Secondo un programma di scadenze firmato dall’Amministrazione Bush, e non da quella di Obama, entro la fine del mese il numero dei soldati in Iraq scenderà a 50 mila e la loro presenza non sarà più considerata “combat”. Il loro comandante, il generale Raymond Odierno, dice che “tutti pensano che dal primo settembre abbandoneremo l’Iraq. Non stiamo abbandonando l’Iraq. Quello che stiamo facendo è cambiare il nostro impegno, non sarà più dominato dai militari ma guidato dai civili”. Il problema è che questo passaggio di consegne dall’esercito americano al dipartimento di stato è troppo costoso. Per accollarsi il lavoro in un contesto ancora ad alto rischio, il dipartimento di stato vuole creare in Iraq un piccolo esercito privato alle proprie dipendenze. Il numero dei contractor che si occupano della sicurezza americana ora è di 2.700, ma sarà triplicato. Le infrastrutture saranno fortificate – l’ambasciata a Baghdad è già adesso la sede più grande del mondo – e al Pentagono è stato chiesto di lasciare sul posto almeno due dozzine di elicotteri Black Hawk per gli spostamenti, cinquanta mezzi corazzati, camion pesanti e sistemi di sorveglianza hi-tech. Ma il Congresso ha stracciato il budget previsto per l’anno fiscale 2011 in Iraq, di un miliardo e ottocento milioni di dollari, mettendo a serio rischio le capacità della missione diplomatica di operare nel paese. Già si dice che uno dei consolati, quello a Diyala, una delle province più problematiche del paese – tra la capitale e l’Iran, abitata da un misto di sunniti e sciiti – dovrà essere chiuso per mancanza di fondi. Il segretario di stato, Hillary Clinton, aveva provato lo scorso febbraio, al momento di presentare la richiesta di finanziamento, a convincere il Congresso che la propria proposta era comunque un affare se confrontata al risparmio colossale dopo il ritiro dei soldati in agosto, almeno 16 miliardi di dollari. Ma non è stata ascoltata. Anche a Washington c’è chi pensa – ha scritto il New York Times in un lungo articolo che sembrava una perorazione – che il ritiro completo e prematuro sia controproducente. All’interno dell’Amministrazione, il capo di questa fazione è il vicepresidente, Joe Biden, che invece quando si parla di Afghanistan propone una presenza americana “light”, fatta soltanto di droni e di squadre speciali. E’ verosimile che il 2011 sia una data irrealistica per il ritiro. Una quota di soldati americani resterà più a lungo in Iraq, se non altro per addestrare l’esercito iracheno a usare le armi che Baghdad sta acquistando dagli Stati Uniti: fucili, ma anche carri armati – 140 carri armati per duecento milioni di dollari, i primi sono già arrivati nel sud del paese (dello stesso modello che da quelle parti, nel 2003, fece irruzione dal confine con il Kuwait) – ma anche navi e prossimamente caccia F-16. Armamenti da esercito moderno; ma il numero dei civili uccisi in strada dai terroristi sta tornando a crescere.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " L’America non può restare: ma si rischia la guerra civile "


John Burns

«Lo sapevano tutti. È noto da tempo che il ritiro americano dall’Iraq era inevitabile. Come del resto è quasi inevitabile l’implosione del Paese una volta che i soldati americani se ne saranno andati». John Fisher Burns (65 anni, due premi Pulitzer) parla con l’esperienza di decenni da inviato per il New York Times nelle zone calde del pianeta: Cina e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, Africa, il Pakistan dei golpe militari, Afghanistan talebano e soprattutto cinque lunghi anni (2002-2007) da capo ufficio per la sede di Bagdad. Così commenta per telefono da Londra le prospettive del futuro iracheno.
Dunque non ha senso chiedere agli americani di restare?
«Non ne ha più. Il meccanismo è ormai avviato, lo dettano esigenze militari e tabelle politiche. Da molto tempo ormai gli Stati Uniti hanno scelto tra la necessità di perseguire i propri interessi e quella di evitare la guerra civile in Iraq. Il paradosso è che da sette anni, dopo l’invasione Usa del marzo 2003, gli iracheni pagano un prezzo altissimo. E ora rischiano di pagarne uno anche peggiore con il ritiro».
Come vede chi tra i militari iracheni dice di non essere pronto a prendere il posto delle truppe Usa?
«È una verità ben nota sin nelle stanze più recondite del Pentagono. E lo sapeva bene anche il generale David Petraeus, che dall’inizio del surge (la grande offensiva, ndr) nei primi mesi del 2007 continuò a ripetere che la relativa stabilizzazione era fragile e facilmente reversibile. Continua a ripeterlo anche oggi».
Lei insiste sulle responsabilità della politica?
«Ancora due anni fa furono l’allora presidente Bush e il premier iracheno Maliki ad accordarsi sul calendario del ritiro. Obama è stato ben contento di farlo suo. I leader americani sanno che l’opinione pubblica è contro la presenza militare in Iraq e Afghanistan. Bisogna uscire, anche se sono coscienti che potrebbe derivarne la guerra civile e il caos totale. Maliki, come del resto ogni altro premier iracheno, non può assolutamente chiedere agli americani di restare, diventerebbe troppo impopolare. Così entro il 31 agosto si passerà dalle attuali 64.000 truppe zero. Preoccupa Usa a 50.000 una e alla domanda: fine del 2011 se già a ora, con i soldati americani ancora nel teatro di guerra, gli iracheni non sono capaci di mettere in piedi un loro governo e trovare larghe intese sulle questioni più gravi, cosa faranno una volta che gli americani non ci saranno più?».
Appunto, cosa faranno?
«Uno degli assunti che avanzano i sostenitori del ritiro è che, dopo anni di stragi, gli iracheni hanno imparato sulla loro pelle e dunque faranno del loro meglio per mettersi d’accordo. Penso che ciò non abbia alcun fondamento. Purtroppo mi viene da dire che il futuro potrebbe rivelarsi molto peggio del passato».
Conseguenze? Uno Stato curdo nel nord, la divisione tra sciiti e sunniti nel centro-sud?
«Non credo in un frazionamento in più entità statali. I Paesi della regione non lo permetterebbero, Iran e Arabia Saudita in testa. I curdi tra l’altro sono già de facto uno Stato nel nord, anche se non hanno alcun interesse a proclamarlo ufficialmente. Vedo invece l’allargarsi delle tensioni interne. Basti ricordare che gli iracheni non sono stati neppure in grado di promulgare una legge petrolifera per spartirsi i proventi del greggio. L’impasse è terrificante».
L’ex ministro degli Esteri, Tareq Aziz, dalla sua cella nel centro di Bagdad ha fatto un appello Obama perché gli americani non lascino l’Iraq al suo destino. Un passo forte, no?
«È una mossa che parla da sola. Tareq Aziz teme di essere assassinato dalle milizie sciite. Chiede a Obama di non lasciare il Paese in pasto a lupi. Ai tempi di Saddam era noto per le sue ambiguità, i trucchetti. Ma ora mi sembra dica il vero. Le sue paure sono collettive».
Iraq prova generale per l’Afghanistan?
«Temo di sì. Gli scenari sono simili. Ma gli americani non possono restare. La guerra costa troppo, oltre 1.000 miliardi di dollari spesi in Iraq. Una follia, gli Stati Uniti sono in bancarotta. Non se lo possono più permettere, è il tracollo dell’impero. Anche se non credo che lo scenario futuro sia molto migliore: il caos a Bagdad e Kabul sarà lo specchio del fallimento Usa. Tareq Aziz in un’intervista al Guardian ha espresso il desiderio per il ritorno di un uomo forte in Iraq. Speriamo non si riveli assassino e psicopatico com’era Saddam. Per il resto non so. Mi sento solo di dire che siamo di fronte a un periodo di gravissima instabilità e l’Iraq ne sarà al cuore».

Per inviare la propria opinione a Foglio e Corriere della Sera, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT