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Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.06.2010 Gilad Shalit è un ostaggio di Hamas, non un prigioniero di guerra
Commenti di Bernard-Henri Lévy, cronaca del Corriere della Sera

Testata: Corriere della Sera
Data: 28 giugno 2010
Pagina: 15
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Il soldato Shalit è un ostaggio non un prigioniero di guerra - Via alla marcia per la liberazione»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/06/2010, a pag. 15, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Il soldato Shalit è un ostaggio non un prigioniero di guerra " e la breve dal titolo " Via alla marcia per la liberazione ". Ecco i due pezzi:

Bernard-Henri Lévy - " Il soldato Shalit è un ostaggio non un prigioniero di guerra"


Gilad Shalit                     Bernard-Heni Lévy

Perché tanta emozione a proposito del soldato Shalit? Non è forse destino delle guerre produrre prigionieri di guerra? E il giovane caporale carrista, rapito nel giugno del 2006, non è un prigioniero come un altro? Ebbene no. Intanto, esistono convenzioni internazionali che regolano lo status dei prigionieri di guerra, e il solo fatto che questo soldato sia tenuto nascosto da quattro anni, che la Croce Rossa, abituata a visitare regolarmente i palestinesi nelle prigioni israeliane, non abbia mai potuto farlo con Shalit, è una violazione flagrante del diritto della guerra. Soprattutto, non bisogna stancarsi di ripetere che Shalit non fu catturato nel corso di una battaglia, ma di un raid, effettuato in Israele e mentre Israele, che aveva evacuato Gaza, era in pace con il proprio vicino. Parlare di prigioniero di guerra, in altri termini, significa ritenere che, se Israele occupa un territorio o se pone fine a tale occupazione, il fatto non cambia in alcun modo l’odio che si crede di dovergli destinare; significa accettare l’idea secondo cui Israele è in guerra anche quando è in pace o che si debba fare la guerra a Israele perché è Israele. Se invece questo non si accetta, se si rifiuta la logica stessa di Hamas che, ammesso che le parole abbiano un senso, è una logica di guerra totale, allora bisogna cominciare con il mutare completamente retorica e lessico. Shalit non è un prigioniero di guerra ma un ostaggio. La sua sorte è simmetrica a quella di chi è sequestrato in cambio di un riscatto, non a quella di un prigioniero palestinese. Bisogna quindi difenderlo come vengono difesi gli ostaggi delle Farc, dei libici, degli iraniani: con la stessa energia impiegata, per esempio, per difendere Clotilde Reiss o Ingrid Betancourt.
Ostaggio o prigioniero, poco importa: perché tanto chiasso per un solo uomo? Perché simile focalizzazione su un individuo «senza importanza collettiva», un uomo «fatto di tutti gli uomini e che li vale tutti e che chiunque eguaglia»? Perché, appunto, Shalit non è uno qualunque e perché gli capita quello che talvolta succede, nei campi ad alta tensione della Storia universale, a individui che nulla predisponeva a simile destino e che, all’improvviso, captano tale tensione, attirano il fulmine che da essa si propaga, diventano i punti di incontro di forze che, in una determinata situazione, convergono e si oppongono. Così fu per i dissidenti dell’era comunista. Così è per i cinesi o i birmani perseguitati oggi. Così è stato, ieri, per certe umili figure bosniache che una concentrazione senza eguali di avversità innalzava al di sopra di se stesse facendone degli eletti. Così è per Gilad Shalit, un uomo dal volto di bambino che incarna, suo malgrado, la violenza senza fine di Hamas; il retropensiero sterminatore dei suoi sostenitori; il cinismo degli «umanitari» che, come sulla flottiglia di Free Gaza, hanno rifiutato di farsi carico di consegnare una lettera della sua famiglia; o ancora: il fatto che, secondo il fenomeno del due pesi e due misure, Shalit non goda dello stesso capitale di simpatia, per esempio, della Betancourt. Un franco-israeliano vale meno di una franco-colombiana? Israele, come segno significante, basta a degradarlo? Per essere precisi, come mai il suo ritratto non è stato affisso, vicino a quello dell’eroina colombiana, sulla facciata del Municipio di Parigi? E come spiegare che, nel parco di un quartiere di Parigi dove alla fine è stata esposta, la sua immagine sia stata regolarmente e impunemente soggetta ad atti di vandalismo? Shalit, il simbolo. Shalit, come uno specchio.

Un’ultima questione: quella del prezzo che gli israeliani sono disposti a pagare per la liberazione del loro prigioniero e quella, connessa, delle centinaia — talvolta si parla di un migliaio — di potenziali assassini che di conseguenza sarebbero rimessi in libertà. Non è un problema solo di oggi. Già nel 1982, Israele liberò 4.700 combattenti reclusi nel campo Ansar, in cambio di 8 dei suoi soldati. Nel 1985 ne lasciò andare 1.150 (fra cui il futuro fondatore di Hamas, Ahmed Yassin) in cambio di 3 dei suoi. Senza parlare dei corpi, solo dei corpi, di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, uccisi all’inizio dell’ultima guerra del Libano, che furono barattati, nel 2008, con prigionieri di Hezbollah, alcuni dei quali erano oggetto di pesanti condanne! L’idea, la duplice idea, è semplice, e fa onore a Israele. Contro la crudeltà delle famose ragioni di Stato, contro il meccanismo dei mostri freddi che sono gli Stati e la loro terribile pigrizia — all’opposto delle gelide intransigenze al cui proposito Leonardo Sciascia non temeva di dire, all’indomani del rapimento di Moro da parte delle Brigate rosse, poi dell’abbandono dei suoi «amici», che esse sono un altro volto del terrorismo— c’è questo imperativo categorico, che non ammette replica: fra l’individuo e lo Stato, scegliere sempre l’individuo; fra la sofferenza di uno solo e i turbamenti del Grande Uno, lasciar sempre prevalere l’uno singolo; un uomo non vale forse niente, ma niente — e soprattutto non l’orgoglio spaccone, da pallone gonfiato, del Collettivo— giustifica che si sacrifichi un uomo. Poi, contro uno pseudo «senso del tragico» che serve da alibi a tante viltà, contro i dialettici da strapazzo che chiosano all’infinito sui possibili effetti perversi che, in tempi più o meno lontani, un gesto o un altro (in questo caso la salvezza di un Daniel Pearl in potenza) potrebbe provocare di fronte a una situazione di cui ignoriamo tutto, citiamo questo principio d’incertezza che è al centro della saggezza ebraica e che l’Ecclesiaste riassume stupendamente: a ciò che va oltre il tuo operare, non ti mescolare, nell’ignoranza in cui ti trovi del regno degli scaltri e delle sue astuzie, salva intanto il soldato Shalit.

" Via alla marcia per la liberazione "

GERUSALEMME— Noam e Aviva, i genitori del soldato Gilad Shalit, da 4 anni prigioniero di Hamas a Gaza, sono partiti ieri dalla loro casa a Mitzpe Hila, in Alta Galilea, per una marcia di 12 giorni che avrà termine a Gerusalemme davanti alla residenza del premier Netanyahu. Premono sul governo perché arrivi a un accordo per il rilascio di Gilad. Alla marcia ieri hanno partecipato 10 mila persone.

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