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Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.07.2009 Jonathan Safran Foer legga Isaac B.Singer, inparerà a scrivere
Quando l'intelligenza da sola non basta-Lo intervista Alessandra Farkas

Testata: Corriere della Sera
Data: 22 luglio 2009
Pagina: 30
Autore: Alessandra Farkas
Titolo: «Odio i racconti, è un genere inutile»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, 22/07/2009, a pag.30, con il titolo " Odio i racconti, è un genere inutile ", Alessandra Farkas intervista il giovane scrittore americano Jonathan Safran Foer, vezzeggiato e superapprezzato dalla critica. Meno, crediamo dai lettori. E' uno dei rari casi in cui il film tratto dal suo libro "Ogni cosa illuminata", è di gran lunga superiore al libro. In quanto ai racconti, ci permettiamo di suggerirgli la lettura di quelli di I.B.Singer. Se li leggerà, dopo non si deprima troppo, capita a molti sentirsi una pulce di fronte a un gigante. Ecco il pezzo di Farkas, come sempre bene informato e accurato:

 J.Safran Foer

NEW YORK — Jonathan Foer come Micha­el Pollan e Carlo Petrini? Si direbbe di sì. Il suo nuovo libro Eating Animals , (in uscita da Little Brown a novembre, in Italia sarà pubbli­cato da Guanda in primavera) è una difesa del vegetarianismo che coniuga memoir e giornalismo investigativo per rivisitare un te­ma già esplorato con successo da Michael Pol­lan ( Il dilemma dell’onnivor o e In difesa del cibo ), Eric Schlosser ( Fast Food Nation ) eMa­rion Nestle ( What to Eat ).
«È il mio primo lavoro di non fiction — rac­conta il 32enne scrittore seduto nel suo uffi­cio alla New York University dove insegna scrittura creativa —. Non si tratta di una de­nuncia politica contro l’industria alimentare, come quelli di Pollan e Schlosser, ma piutto­sto di una guida etica per l’individuo». Nel li­bro Foer spiega come la carne sia per lui un problema sin dall’infanzia. «Il dilemma mi si è ripresentato quando sono diventato padre e ho dovuto prendere decisioni per i miei fi­gli. Da allora — precisa — sono ossessionato dalla morte. Essere genitore implica anche dover preparare i figli alla nostra morte».
Il tempismo di
Eating Animals non avreb­be potuto essere migliore. «Oggi, nelle uni­versità americane ci sono più vegetariani che cattolici. Il 20 per cento degli studenti si defi­nisce vegetariano». C’è da scommettere che a questi vegetariani, vegan e seguaci della ma­crobiotica piacerà molto un libro che difende lo slow food e gli attivisti del Peta («eccentri­ci che sanno attirare i riflettori del mondo») affermando che «il nemico sono le food cor­poration ». Anche lui è, a suo modo, un attivista. Dopo essere stato tra i promotori di «Downtown for democracy», che ha mobilitato i massimi scrittori Usa contro Bush e per Obama, l’auto­re di Ogni cosa è illuminata ha lanciato con l’amico Jonathan Franzen «Air, land and sea», raccolta di fondi per associazioni am­bientaliste e animaliste. E all’insegna dell’im­pegno è la sua prossima fatica, ancora senza titolo. Un thriller fantascientifico ambientato in un mondo parallelo: uno Stato totalitario dove tutti sono ripresi in video e troupe cine­matografiche filmano ogni attimo di vita di un’umanità ormai senza più privacy.
Safran Foer lo definisce un libro di stampo kafkiano: «Sono circa a metà e in altri sei me­si dovrei completarlo, ma potrei anche non finirlo mai». Di certo, non diventerà una
short story . «Non penso che una buona idea possa essere compressa in poche pagine — teorizza —. I racconti brevi sono come le rela­zioni brevi: la maggior parte delle persone non comincia un amore nella speranza che duri poco». L’invito a coltivare il genere, lan­ciato da David Remnick del «New Yorker», lo lascia freddo: «La sua ultima short story che mi è piaciuta è The Bees, part 1 di Aleksandar Hemon, uscita sul 'New Yorker' nel 2002».
Da alcuni anni Foer lavora ad un libro dal titolo
Magical Jews ( « Ebrei magici»), che non intende pubblicare, e che parla dei suoi «padri letterari», tra cui: Franz Kafka, Charlot­te Salomon, Bruno Schulz, Yehuda Amichai, Philip Guston, R.B. Kitaj. «L’ultimo è mio nonno. Non era un artista, ma per me è la quintessenza dell’ebreo magico. È morto mol­to prima che io nascessi e tutti questi artisti hanno in parte riempito il vuoto che lui mi aveva lasciato: la funzione stessa dell’arte è di colmare un’assenza. In un mondo felice e per­fetto non ci sarebbero libri».
Il suo ormai famoso viaggio in Ucraina, che ha ispirato il bestseller
Ogni cosa è illumi­nata e l’omonimo film nascono proprio «dal desiderio di colmare il vuoto». Ma non tutte le voragini affettive sono colmabili. «Troppe figure insostituibili ci stanno lasciando — ri­flette —. Mi manca molto John Updike, uno scrittore ottimista e generosissimo coi giova­ni. E David Foster Wallace, che credeva ferma­mente nel vegetarianismo, ma non riusciva a fare a meno della carne. Gli avevo scritto a proposito di un suo saggio bellissimo, Consi­dera l’aragosta ».
Altri, come Saul Bellow e Philip Roth, non
moriranno mai. «Hanno influenzato il lessi­co e la cultura della mia famiglia e di tutti gli intellettuali americani ebrei di allora. I nostri ethos , senso dell’umorismo, modo di vedere il mondo gli sono debitori». Sì perché la lette­ratura, più che la religione ebraica, è il terre­no culturale su cui è cresciuto. «La mia identi­tà ebraica si rispecchia nelle mie letture, nel­la mia sensibilità, nell’ironia, nell’etica e nel­­l’estetica, nella mia psicologia, nel mio esse­re allo stesso tempo pieno di speranze e sen­za speranze».
L’ironia della sorte ha voluto però che il suo primo editore fosse italiano. «Luigi Brio­schi di Guanda acquistò il mio libro nel 2001, prima ancora che venisse pubblicato in Ame­rica. È stato lui a scoprirmi». Il resto è storia. L’anno scorso sia il «Guardian» sia il «New York Magazine» si sono chiesti in due lunghi articoli «Perché Jonathan Safran Foer è lo scrittore più invidiato e odiato d’America?» ri­spondendo che la colpa è del fatto di «essere diventato ricco e famoso a 25 anni, sposando la troppo bella e brava scrittrice Nicole Krauss», «Essere il bersaglio di gelosie è normale quando si ha successo — replica lui —. Co­me disse Henry Kissinger parlando degli acca­demici 'si pugnalano alle spalle perché la fa­ma è un bene così scarso'». Ma la presunta gelosia tra lui e i due fratelli scrittori, Franklin, direttore di «The New Republic», e Joshua, che ha appena venduto a Penguin il suo primo romanzo, Moonwalking with Ein­stein , sarebbe un’invenzione dei media: «Fac­ciamo cose molto diverse. Io gioisco dei loro successi più che dei miei».
Foer dice di leggere «solo le recensioni ob­bligatorie », come quelle del «New York Ti­mes » e di non lavorare mai insieme alla mo­glie. «Mi piace oltrepassare la soglia di casa e smettere di essere un autore. Joan Didion e John Gregory Dunne erano collaboratori inse­parabili e Paul Auster e sua moglie Siri Hu­stvedt parlano continuamente di letteratura. Al contrario io e Nicole ignoriamo persino quale libro stia scrivendo l’altro in un dato momento».
Anche loro, come Auster e la Hustvedt, vi­vono a Brooklyn. «Ha meno stimoli di Manhattan e ti permette di dedicarti meglio alla tua vita interiore. E poi costa meno». La recessione, inutile negarlo, ha toccato anche il suo mondo. «Purtroppo le istituzioni di cui abbiamo più bisogno sono le più vulnerabili. Il 'Washington Post Book World' è fallito al­l’inizio dell’anno perché la cultura alta soc­combe prima di quella bassa. Chi prenderà il suo posto quando la recessione sarà finita? Siamo destinati a rimanere con un cumulo di spazzatura?».
Tra questa lo scrittore annovera il boom dei cosiddetti auto-editori. «Non mi stupisce che pubblichino sei volte più delle case editri­ci tradizionali. È come dire che una prostitu­ta fa sesso sei volte più di una donna sposata. Se le paghi, pubblicano qualunque cosa». Ciò non significa che le case editrici tradizionali siano infallibili
talent scout . «Kafka da vivo non ha mai ricevuto il riconoscimento che ha avuto post mortem — spiega —. E anche il mio Ogni cosa è illuminata è stato rifiutato ben nove volte».

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