Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/06/2009, a pag. 13, due articoli di Francesco Battistini titolati " Gaza sei mesi dopo: Onu e case di fango ", una descrizione della situazione a Gaza secondo le informazioni in suo possesso, e " Il padre di Gilad: i nostri destini sono legati ".
" Gaza sei mesi dopo: Onu e case di fango "
Costruzione di un edificio a Gaza
GAZA — Case così, non s’erano più viste. Con le colonne, le cupole. Pure le decorazioni. Tutte di fango. Sabbia, acqua e fantasia. A Gaza hanno cominciato a costruirle in marzo, quand’era chiaro che gli israeliani non avrebbero mai lasciato passare il cemento, il vetro, l’acciaio che temono serva a fabbricare razzi. «Cent’anni fa, le case di fango le facevamo anche qui — racconta il geometra Ahmed Taha, un 42enne tutto preghiera e betoniera —. Le tirava su il mio bisnonno. Ma era il tempo degli Ottomani. E nessuno ormai si ricordava la tecnica ». Poi saltò fuori uno di Hamas, Ziad Zaza, ministro di un’Economia che non c’è. Ho fatto i cantieri nello Yemen, rivelò Ziad all’amico Ahmed: là è tutto di terra seccata, so come si fa. Il geometra e i suoi operai hanno imparato subito. E ora scarriolano, impastano, edificano fra le macerie di Zeitun. Quattro mesi di lavoro. Duemila mattoni al giorno, tagliati e rosolati sotto il sole. «Ci sono dei vantaggi », dice il geometra. Si possono scavare fondamenta di non più d’un metro e mezzo. E costruire al massimo tre piani. E sfamare il triplo dei muratori che servono a una casa normale: naturalmente, solo gente fidata e fedele al movimento. «Alla fine copriamo con un impasto di pietre, così da fuori sembrano abitazioni come le altre». E se piove? «Deve cadere acqua come bombe, per distruggerle».
Dall’era del Piombo Fuso all’era del Fango Essiccato. In sei mesi. Chiusa al mondo, dimenticata dal mondo, la Striscia campa come sa. L’altroieri, Benedetto XVI ha chiamato la comunità internazionale alla «ricostruzione d’una terra ancora una volta abbandonata a se stessa». Ieri, una nave di pacifisti che volevano forzare il blocco da Cipro è rimasta nel porto. Ormai ne parlano, se ne occupano solo loro. Una puntatina di Tony Blair, una visitina di Jimmy Carter: gente che non conta molto. Il resto è silenzio. Da qualche settimana è comparsa una strana malattia, sulla pelle di migliaia di persone: un po’ di detergente, l’unica terapia, e si vedrà. Hanno anche girato un cartoon, «Fatenah», sulla storia vera d’una donna malata di tumore che gli israeliani non fanno uscire dalla Striscia: credete che abbia avuto la stessa pubblicità di «Valzer con Bashir»? E vi ricordate le tonnellate d’aiuti spedite a gennaio da tutti i continenti, nella commozione per i bambini massacrati? Nelle botteghe di Han Yunis, trovi qualche sacco di riso della Thailandia, i pacchi del World Food Program a prezzi da mercato nero. Briciole: centinaia di tonnellate, cibo e medicinali, sono ancora stoccate nei magazzini di El Arish, la cittadina egiziana a 40 km dal valico di Rafah. Sei mesi dopo l’operazione Piombo Fuso, il grosso è marcito. E i doganieri di Mubarak, nella generale indifferenza, hanno deciso di bruciarlo.
La prigione a cielo aperto più grande del mondo è ben sorvegliata, da israeliani ed egiziani. E gli aiuti diventano strumento di pressione politica. C’è un matrimonio, quando arriviamo nella vecchia zona industriale di Jabalya, uno dei sobborghi di Gaza City rasi al suolo. Si sposano Fahdi e Muna, 36 anni in due, nipoti d’un capotribù del paese, Abed Rabbo. La cerimonia è minima, un vassoio di dolci e succo d’arancia: al 55enne Abed, per ricevere i cinquemila del clan sono rimasti solo un divano scassato e un telo di plastica dell’Unrwa, piazzati davanti alle macerie di casa. Ogni invitato porta in dono ai Rabbo quel che è rimasto della sua, di casa: un mattone, un wc, un cavo, un pezzo di finestra, una piastrella. Fahdi e Muna ci stanno costruendo la loro stanza, attaccata a un palazzo di sfollati.
«Eravamo contadini — dice il patriarca —. I campi, è impossibile lavorarli: i canali d’irrigazione sono distrutti, ci sono le mine». Un metro cubo d’acqua desalinizzata costa 10 euro e, quando li hai, li spendi per bere: «Se vuoi piantare un limone, lo paghi tre volte il suo prezzo. Una volta eravamo un giardino. Adesso, in tutta Gaza è impossibile trovare un albero da frutta. Hamas ha dato qualche soldo dopo la guerra, per tenere tutti buoni. Poi, basta. Aiuti e lavoro, solo ai suoi».
Le più grandi aziende della Striscia, le sole che offrono impiego, sono due: l’Onu, 16 mila stipendiati, e Hamas che dà un salario a 13 mila famiglie. I veri centri di potere. In un mondo chiuso dove un poliziotto prende 250 euro al mese, un colonnello 600. In una situazione che favorisce immaginabili abusi: il dirigente delle Nazioni Unite che gestisce anche un hotel per le delegazioni straniere, l’irreprensibile del movimento islamico che oltreconfine fa affari con gli israeliani... Ali Abu Shahla, classe 1946, ha tre diversi biglietti da visita e aveva una fabbrica di costruzioni con 30 dipendenti (ora sono tre): «Allo staff di Blair, inviato del Quartetto per il nostro rilancio economico, ho chiesto di rinnovarmi la tessera da imprenditore. Guardi qui: numero 911576742. È scaduta il 31 dicembre. Era il mio lasciapassare per fare contratti in Israele. Non mi hanno nemmeno risposto». L’unica commessa che l’impresa di Abu Shahla ha in ballo, è per ricostruire la scuola d’un villaggio distrutto. Ma non a Gaza: in Afghanistan.
Nei dopoguerra, si sa, c’è chi sta meno peggio. E magari fa pure qualche soldo. Ci sono le case dei signori di Hamas, misteriosamente scampate alle bombe. C’è la Banca Nazionale Islamica, nuova di zecca: applica la sharia, che vieta di fare soldi coi soldi, ed è il salvadanaio degli stipendi, o la cassaforte dei tunnel, un’economia mai doma. Il mercato di Rafah lo chiamano Port Said, perché è come il duty free egiziano. Porta sottoterra latte israeliano (2 euro al litro), carburante (prezzo raddoppiato), computer (350 euro), cellulari (200), frigoriferi (400) e cose carissime come frutta, giocattoli, cioccolata, merendine. Porta anche Valium e pillole antidolorifiche, richiestissime. Gente che fa soldi, i padroni dei tunnel: 50 mila dollari e ti offrono la partnership, «sei mesi e rientri dell’investimento ». Gente che ha i ganci giusti: quando il mercato andava giù, prima della guerra, bastava una chiamata ai soci delle Brigate Qassam, che lanciavano un razzo su Sderot e facevano chiudere dagli israeliani i valichi, rivitalizzando l’economia sotterranea.
Ogni tanto, la macchina s’inceppa. Com’è successo a Ihab Kurdi, detto «il Madoff di Gaza»: anche lui aveva pensato d’applicare lo schema di Ponzi, a modello il re di Wall Street, e offriva interessi addirittura del 100 per cento a chi investiva su merci che dovevano ancora arrivare. Convincente, Ihab: gli imam, i capi islamici, interi quartieri s’erano decisi a versare. La guerra, i blocchi hanno fatto saltare la piramide d’investimenti. Decine di famiglie sono finite sul lastrico, qualcuno ha perso 200 mila dollari. In aprile, quando la truffa era ormai scoperta, è esplosa la rivolta di piazza. E il furbetto del minareto è finito in galera. Promette che restituirà. Come e quando, non si sa. Gli hanno pignorato la casa, intanto. Che non è di fango.
" Il padre di Gilad: i nostri destini sono legati "
Noam Shalit mostra una foto del figlio, Gilad
GAZA — «La cosa che non mi fa dormire, la notte, è avere accettato tutto questo: che legassero il destino di Gilad a quello di Gaza. L’hanno fatto diventare uno scambio fra due ostaggi. La libertà di un soldato contro quella d’un milione e mezzo di palestinesi». L’ultima volta che andò nella Striscia, a fare il bagno quand’era ragazzo, Noam Shalit non se la ricorda più. Che da tre anni sia la prigione di suo figlio, non gli fa dimenticare che razza di prigione sia: «La situazione umanitaria è terribile. È uno dei posti più disperati del mondo. Il governo israeliano ha deciso che non aprirà i valichi, finché Gilad non sarà libero. Ma Gilad non sarà libero, finché Hamas non accetterà la lista dei prigionieri che Israele è disposta a scarcerare. È un baratto complicatissimo.
E allora, da padre me lo chiedo: dovevo rifiutare che ci si cacciasse in questo vicolo cieco? Gilad non l’ha più visto nessuno. Nemmeno la Croce rossa. Gli ho fatto avere un paio d’occhiali. Un anno fa, mi hanno mandato un suo biglietto con su scritto 'sto bene'. Non ho altro». L’ostaggio di Gaza è in una casa minata, dicono. Guardato da gente di Hamas che molti del movimento nemmeno conoscono. Un tema tabù. «Pochi sanno esattamente dov’è», giura Abu Mohammad, 45 anni, comandante dei 120 uomini della Brigata Qassam di Jabalya ovest: «Gli israeliani capiscono che andarlo a prendere è impossibile: perché non hanno tentato sei mesi fa, quand’erano qui coi carri armati? Perché sapremmo rispondere. Abbiamo comprato razzi ancora più potenti, possiamo colpire ben oltre Ashdod». Dice Ibrahin Abu Naja, 63 anni, ex ministro del Fatah: «Shalit? Nessuno può fare domande. Noi dell’opposizione, meno degli altri. Ci hanno messo in galera, hanno ammazzato 30 dei nostri, hanno torturato: è già tanto se ci lasciano girare liberi, figurarsi porre questioni...».
Neppure i giornali dell’«Hamastan» scavano granché: «Mi hanno chiuso la redazione per molto meno— spiega Hasan Jaber, 44 anni, direttore del quotidiano Al Ayyam —. L’aborto, i delitti d’onore, le violenze sulle donne e Shalit sono argomenti che non piacciono». Da qualche tempo, a Gaza sono comparse pericolose formazioni qaediste (Junud Ansar Allah, circa 500 uomini) che ufficialmente Hamas contrasta, ma secondo i servizi israeliani fanno solo il «lavoro sporco» per conto del governo: «È gente che conta — dice Jaber — e in questo momento non gradirebbe una liberazione del soldato ». L’altroieri, terzo anniversario del rapimento, s’era sparsa la voce che il caporale israeliano fosse già in Egitto, pronto per il rilascio. Il 7 luglio è fissato l’ennesimo incontro al Cairo per la riconciliazione tra Fatah e Hamas, e per quella data Mubarak vorrebbe almeno qualche buona notizia: «Sono solo chiacchiere — è sicuro il papà di Gilad —. Io non so nulla della pista egiziana e non ci credo. Ne ho sentite tante...». L’impasse della trattativa è sempre lo stesso, dice Yossi Beilin, ex leader del partito Meretz di ritorno dal Cairo: né Israele (rilasciando i palestinesi richiesti), né Hamas (liberando il soldato) vogliono sprecare la carta migliore. Noam Shalit l’ha capito e ha cominciato a protestare: «Prima che Olmert lasciasse la carica di premier, eravamo vicinissimi. S’è mosso troppo tardi, però. Netanyahu si mostra più disponibile, ma nella pratica...».
Mercoledì, Noam e sua moglie saranno in Campidoglio, da Alemanno: verrà conferita la cittadinanza onoraria a Gilad, come s’è già fatto a Parigi. Un altro passaporto, per un ragazzo che non può andare in nessun luogo: «Serve tutto — dice papà Shalit —. Gilad e la gente di Gaza stanno pagando la cocciutaggine delle due parti. E la politica è giusto che si muova».
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