venerdi 10 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.06.2009 Processi della Corte Ue: troppo spesso assolvono in appello i terroristi
E poi c'è l'Onu, che se non c'è di mezzo Israele, non vede nulla

Testata: Corriere della Sera
Data: 01 giugno 2009
Pagina: 14
Autore: Federico Fubini - Guido Olimpio-Pierluigi Battista
Titolo: «Terrorismo, le assoluzioni della Corte Ue - Talebani, la nuova rete mondiale dei finanziamenti - Onu, il campione delle occasioni perdute»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/06/2009, a pag. 13, l'articolo di Federico Fubini dal titolo " Terrorismo, le assoluzioni della Corte Ue " e quello di Guido Olimpio dal titolo " Talebani, la nuova rete mondiale dei finanziamenti ".  Segue il commento sull'Onu di Pierluigi Battista.  Si sente sempre di più l'urgenza di una riforma radicale di questo obsoleto organismo. Ecco gli articoli:

Federico Fubini : "Terrorismo, le assoluzioni della Corte Ue "

Forse serviva davvero uno sceic­co considerato vicino a Osama Bin Laden. Ci voleva che un fa­coltoso uomo d’affari di Gedda, Yas­sin Abdullah Kadi, lanciasse la sua bat­teria di avvocati — tre inglesi e un in­diano sikh del foro di Londra — con­tro il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Regno dei Paesi Bassi, il Regno Unito, la Commissione euro­pea e il Consiglio dei ministri dell’Ue. Occorreva che vincesse questo cocciu­to saudita accusato dal Consiglio di si­curezza dell’Onu di essere vicino a Al Qaeda, perché l’Europa battesse un colpo. E vivesse, allo stesso tempo, una nuova tappa di quella che si va di­panando come una sorta di ritirata da Guantánamo in salsa europea.
Suonerà paradossale, indigesto e magari anche autolesionista. Ma l’ar­gomento che qualche mese fa il saudi­ta Kadi ha portato in propria difesa da­vanti ai giudici della Corte di giustizia dell’Ue è questo: l’Europa deve smette­re di essere un nano politico, è tempo che si assuma in proprio le sue respon­sabilità globali. L’interessante (o il pro­blema) è che Kadi ha vinto la sua cau­sa e a perderla sono state Bruxelles, Madrid, Parigi, l’Aia e Londra, le relati­ve istituzioni e i rispettivi governi.
Nel dare ragione a quel saudita ac­cusato di sostenere il terrorismo, i giu­dici comunitari hanno stabilito per la prima volta il principio dell’indipen­denza delle decisioni europee di fron­te al Consiglio di sicurezza delle Nazio­ni Unite. Fosse stata una sentenza del­la Corte suprema degli Stati Uniti, ma­gari qualcuno avrebbe imprecato con­tro l’insopportabile unilateralismo americano.
L’antefatto è che il Consiglio dei mi­nistri dell’Ue (che rappresenta i gover­ni dei 27), applicando una risoluzione del Palazzo di Vetro passata subito do­po l’11 settembre, aveva colpito diret­tamente Kadi. Gli aveva congelato be­ni, società e conti in banca, in quanto «persona vicina a Osama Bin Laden». Ma sentite cosa sono andati a raccon­tare i legali dello sceicco ai giudici del Lussemburgo, nel loro appello contro la decisione di «Politica estera e di si­curezza comune» dell’Unione: «Le ri­soluzioni del Consiglio di sicurezza non attribuiscono (a Bruxelles, ndr) il potere di ledere i diritti fondamentali (di Yassin Abdullah Kadi, ndr) senza giustificare un tale danno presentan­do le prove necessaria».
Non solo: «In quanto ordinamento giuridico indipendente dalle Nazioni Unite, governato da norme sue pro­prie — afferma il businessman saudi­ta tramite i suoi avvocati — l’Unione europea dovrebbe giustificare le misu­re da essa adottate riferendosi ai pro­pri
poteri». Insomma non basta all’Eu­ropa colpire questo o quello con misu­re antiterrorismo solo perché il Consi­glio di sicurezza le chiede di farlo. Non deve solo eseguire, come fosse un insieme di istituzioni subalterne: deve darsi una propria politica, gli strumenti per attuarla, e deve giustifi­care in proprio le sue scelte.
Kadi l’ha avuta vinta, al secondo tentativo, in una sentenza del settem­bre scorso. I suoi beni sono stati scon­gelati e il Consiglio e la Commissione dell'Ue hanno dovuto pagargli gli av­vocati. I giudici comunitari hanno ri­vendicato il diritto di «garantire il controllo completo della legittimità di tutti gli atti» dell’Unione europea, «inclusi quelli che mirano ad attuare risoluzioni del Consiglio di sicurezza in base alla Carta delle Nazioni Uni­te ». Come dire che l’Unione europea non riconosce, a priori, nessun potere al di sopra di essa: una forza legale
sorprendente per un’entità il cui nanismo politico viene proclamato e deprecato quasi ogni giorno.
La conseguenza (o, appunto, il problema) è un nuovo filone giudiziario, fitto di ricorsi, parallelo all’esperienza dei giudici americani che hanno smontato pezzo a pezzo la legittimità delle detenzioni a Guantánamo. Allo sceicco saudita è stata riconosciuta la violazione dei diritti della difesa e al rispetto della proprietà privata. Ma Kadi non è un caso isolato nella politica antiterrorismo dell’Ue. La stesura delle liste sulle organizzazioni e gli individui sotto accusa, ma soprattutto le sanzioni finanziarie contro questi ultimi, hanno provocato una pioggia di reazioni e battaglie giudiziarie da varie centinaia di pagine di sentenze. Altre al caso Kadi, la Corte di Lussem­burgo ha già reso altre quattro senten­ze sull’anti-terrorismo e ha ancora di­ciassette casi pendenti.
Quasi sempre, cioè in quattro ricor­si sui cinque già decisi, le sentenze hanno premiato i sospetti terroristi. Ha vinto la Fondazione Al Aqsa con se­de in Olanda, hanno stravinto i marxi­sti curdi del Pkk-Kongra-Gel. Finora ha perso solo José Maria Sison, il lea­der storico del partito comunista del­le Filippine, che aveva chiesto di con­sultare
i documenti usati dal Consi­glio dei ministri dell’Ue contro di lui.
Di recente hanno prevalso invece, e clamorosamente, i Mujahidin del Po­polo dell’Iran. Si tratta di un gruppo islamico di ispirazione socialista che negli anni ’70 si costituì in armi con­tro lo Scià e dopo la rivoluzione kho­meinista proseguì la sua guerra anche al regime degli Ajatollah. Fino al 2003, i Mujahidin avevano molte basi in Iraq, dove avevano stretto un’alle­anza di interessi con Saddam Hus­sein. Da ministro dell’Interno, pro­prio quell’anno, Nicolas Sarkozy li aveva accusati di usare la Francia co­me loro testa di ponte. Nel maggio del 2003 i Mujahidin del popolo sono stati poi disarmati dagli americani in Iraq e hanno cessato le attività milita­ri. Ma solo all’inizio del 2009, dopo sette anni di battaglie giudiziarie e al terzo appello perso, i governi del­l’Unione li hanno tolti dalla lista delle organizzazioni terroristiche e hanno scongelato i loro beni.
La sentenza di Lussemburgo vede i Mujahidin schierati contro Gran Bre­tagna, Francia e le istituzioni dell’Ue, ed è chiara. È stata la camera di consi­glio più veloce nella storia del tribuna­le di prima istanza dell’Ue: i giudici avevano pochi dubbi. L’iscrizione dei Mujahidin fra i terroristi era in realtà un’iniziativa di Londra, ma una Corte britannica l’aveva già definita «perver­sa » e «irragionevole», dopo che il go­verno l’aveva presentata come una sorta di misura preventiva. La Corte di Lussemburgo ha stabilito che quel­la misura violava i diritti della difesa, anche perché non era adeguatamente motivata: temi già utilizzati dai giudi­ci americani su molti prigionieri di Guantánamo.
Non è un caso, forse, che alcuni analisti nel 2003 leggessero nelle accu­se di Londra ai Mujahidin un segnale di disgelo verso Mohammad Khata­mi, l’allora presidente moderato del­l’Iran. Quel gruppo era considerato una pedina di scambio, prima che i giudici comunitari facessero valere il garantismo dell’Ue. Ora molti diran­no, non senza argomenti, che la tute­la dei diritti scopre il fianco dell’Unio­ne al terrorismo. Ma in tempi di politi­ca fragile a Bruxelles, della forza della legge europea non si può dire altret­tanto.

Guido Olimpio : " Talebani, la nuova rete mondiale dei finanziamenti "

WASHINGTON — I controlli sul finanzia­mento del terrore esistono, le leggi pure ma è difficile provare il reato. E dunque diverse for­mazioni hanno continuato a ricevere denaro ma sono diventate scaltre nel nascondere le tracce e a diversificare le fonti.
In Europa

I militanti di origine nordafricana si autofi­nanziano con il crimine. Spaccio di stupefa­centi, traffici legali e illegali di vetture, racket dei documenti falsi, piccoli commerci. Una specialità è quella delle false griffe: borse, scarpe da ginnastica, capi di abbigliamento ta­roccati. Merci acquistate dai cinesi e poi riven­dute sulle bancarelle. Non si tratta di un teso­ro, ma i simpatizzanti della Jihad sono parsi­moniosi e spartani. Bastano poche centinaia di euro per alimentare la causa. Soldi con i quali permettono ai mujahidin di raggiunge­re
il teatro iracheno e aiutano i loro compa­gni che agiscono in Algeria.
In Iraq

Gli insorti hanno «fonti» dirette e indiret­te. Le prime sono rappresentate da taglieggia­menti, sequestri di persona, contrabbando, mercato nero delle armi e del petrolio. Le se­conde sono garantite da rimesse che arrivano da cittadini iracheni residenti in Siria e simpa­tizzanti che vivono nei Paesi del Golfo Persi­co. Se la ribellione persiste è merito anche del flusso continuo di risorse.

In Afghanistan e Pakistan

Nello scacchiere ribattezzato Af-Pak (Af­ghanistan- Pakistan) la droga garantisce al movimento talebano notevoli risorse, stima­te dai 150 ai 300 milioni di euro. Ma negli ulti­mi due anni, i militanti si sono dedicati con
profitto al contrabbando di legno, marmo e smeraldi. Proprio nella regione pachistana di Swat, al centro dei furiosi scontri di queste settimane, c’è la centrale del traffico di pietre preziose. Le gemme seguono un percorso ben organizzato: prima tappa Jaipur in India, quindi Bangkok (Thailandia), Svizzera e Israe­le, dove sono tagliate e poi rimesse sul merca­to. In alcune zone i talebani hanno ottenuto la collaborazione della popolazione locale in cambio di buone percentuali. Un asse solido nelle regioni tribali dove, a cadenze mensili, si svolgono assemblee alle quali sono invitati commercianti legati ad alcuni clan. Ognuno offre una quota destinata ai mujahidin e si im­pegna a raccogliere risorse. Alcuni — i più im­portanti — garantiscono altre risorse operan­do all’estero. Gli Emirati Arabi (specie Dubai) sono la piattaforma preferita: qui, gli impren­ditori amici dei talebani riservano una quota per i guerriglieri e favoriscono collette tra i nababbi del Golfo. Quasi sempre si tratta di soldi in contanti e pertanto è difficile ricostru­ire l’origine o il percorso. Non diverso è quan­to avviene con i terroristi indiani. Organizza­zioni mafiose che hanno basi sempre nel Gol­fo, uomini d’affari e società di copertura ali­mentano gruppuscoli di varia ispirazione. E l’inchiesta sulla strage di Mumbai (novembre 2008), compiuta da separatisti del Kashmir basati in Pakistan, ha fatto emergere dettagli interessanti su come siano stati finanziati. Dollari sono arrivati da un imprenditore ara­bo d’origine indiana basato in Oman e legato al mondo integralista. Spese sono state soste­nute grazie a piccole rimesse di complici itine­ranti, alcuni dei quali operanti a Brescia e cit­tà della Spagna. Parliamo di somme modeste che, tuttavia, messe insieme hanno permesso di risolvere problemi logistici anche minimi, come l’acquisto di schede telefoniche «puli­te ».
L’insieme dei casi citati testimonia l’abilità di molte organizzazioni terroristiche. Anche con risorse contenute sono in grado di fare danni e superare muniti apparati di difesa. Chi ha le casse piene — ad esempio i talebani — è invece in grado di mantenere una pressio­ne più lunga alimentando una vera guerriglia. Il segreto è quello di creare un apparato paral­lelo, non strettamente collegato al movimen­to e magari impegnato in imprese commercia­li assolutamente legali. Un perfetto paravento per continuare a finanziare la violenza ed evi­tare un’eventuale condanna in tribunale.

Pierluigi Battista : " Onu, il campione delle occasioni perdute "

Non basta la documentazione fotografica della grande strage fornita dal Times. Non bastano i 20.000 civili che con plausibili approssima­zioni si suppone siano stati massacrati nello Sri Lanka durante l’offensiva che ha sgomina­to le Tigri Tamil. Né i rastrellamenti dei bambini, le esecu­zioni dei profughi da parte delle truppe paramilitari al ser­vizio del presidente Mahinda Rajapaksa, l’emergenza uma­nitaria denunciata dalla Croce Rossa, le centinaia di orfani che secondo Save the Children, come ha scritto Cecilia Zecchinelli sul Corriere, «vagano terrorizzati» attorno ai campi profughi. Niente. Il Consiglio Onu per i diritti uma­ni ha deciso a Ginevra di bocciare la proposta europea di un’indagine su quanto è accaduto. La visita di Ban Ki-mo­on a Colombo ha prodotto i suoi effetti. L’Onu non farà nulla, non indagherà, non si occuperà di diritti umani cal­pestati, dimostrerà ancora una volta la sua totale assenza di credibilità.
L’organismo internazionale preposto alla loro difesa tratta i diritti umani come un elastico, da manipolare se­condo convenienza, sul metro dei rapporti di forza e nel­l’assoluta noncuranza dei princìpi. Mette a capo delle com­missioni che dovrebbero tutelare l’integrità dei diritti nel mondo, nazioni che ne fanno scempio quotidiano. Anziché occuparsi della piaga razzista che ferisce la dignità di milio­ni di uomini organizza a Dur­ban e Durban2 fiere interna­zionali dell’antisemitismo. Non spende una parola sulle atroci dittature che infestano il pianeta. Accoglie tra le sua braccia un tiranno come Mu­gabe, che si fa ritrarre mentre assieme ai suoi ospiti divora aragoste giganti sebbene lo Zimbabwe sia alla fame. Assi­ste senza fiatare alle impiccagioni seriali di minorenni a Teheran. Bacchetta l’Italia per la sua politica di «respingi­menti » di clandestini che vengono rispediti nei Paesi che non rispettano i più elementari diritti, ma non affianca alla protesta neanche una nota di allarme per quegli stessi Paesi da cui masse di diseredati fuggono con disperazio­ne.
Gravano sul passato dell’Onu le umilianti manifestazio­ni di impotenza di fronte agli eccidi di Srebrenica e del Ruanda. L’ombra dei sospetti di corruzione, come quello di Oil for Food nell’Iraq di Saddam Hussein. Appare sem­pre più senza freni e inibizioni il suo strabismo ideologico che accende l’indignazione per l’intervento israeliano a Ga­za ma nello stesso tempo alimenta il silenzio sui massacri dei civili in Sri Lanka.
L’espressione convenzionale «sotto l’egida dell’Onu» sta diventando sinonimo di sicuro insuccesso tutte le vol­te che nel mondo esplodono crisi in grado di mettere a repentaglio le popolazioni civili. Adesso il bavaglio impo­sto da Ginevra a chi vuole sapere cosa sia accaduto nei campi fotografati dal
Times: l’ennesima occasione perdu­ta per riscattare l’onore ormai svanito.

Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, cliccare sull'e-mail sottostante


lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT