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Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.04.2009 Era un ragazzo arabo israeliano, i suoi vivono in Galilea
Perchè Dacia Maraini ha scritto che era di Gaza ?

Testata: Corriere della Sera
Data: 12 aprile 2009
Pagina: 13
Autore: Dacia Maraini
Titolo: «Quei volti bianchi di paura con la voglia di ricominciare»
 

 


lettere@corriere.it

Pubblichiamo questa lettera nella rassegna e non nella consueta rubrica " dite la vostra" per la notorietà della scrittrice citata, Dacia Maraini, e per evidenziare,se possbile, quanto il pregiudizio contro Israele possa influenzare persino una persona che, se non altro per il mestire che fa, dovrebbe saper usare meglio il propio cervello. Vedremo se risponderà. Grazie alla nostra lettrice che ce l'ha segnalato.  Lo pubblicamo integralmente al fondo della pagina.

Allego il testo di una lettera che ho inviato oggi a Dacia Maraini presso la redazione del Corriere della Sera

Gentile signora Maraini,
leggo nel suo articolo sul terremoto dell'Aquila pubblicato sul Corriere l'8 aprile 2009.
 
"....Fra le tante storie mi ha colpito quella degli studenti che abitavano nella casa costruita per loro.....lì sono sotterrati alcuni studenti che oggi avrebbero potuto essere vivi. Compreso UN RAGAZZO CHE ERA SCAMPATO ALLE BOMBE DI GAZA ed è rimasto sepolto sotto le macerie di una casa abruzzese...." (testo ripreso nei sottotitoli dell'articolo)
Immagino che lei si riferisca a Hussein Hamada, studente arabo il cui corpo era stato identificato quel giorno dal padre.
Non riesco a capire il riferimento alle bombe di Gaza.
Hussein Hamada era uno studente arabo ISRAELIANO che era a L'Aquila da due anni per studiare medicina. Proveniva da Kaboul, villaggio della Galilea (che come è noto è situata nel nord di Israele, e non nel sud come Gaza).
Forse poteva essere scampato ai bombardamenti degli Hezbollah del 2006 che hanno fatto vittime anche tra i cittadini arabi del Nord di israele, ma certamente non era scampato alle bombe di Gaza.
Le sarei grata se volesse gentilmente spiegarmi se si riferiva ad altri, o se si tratta, come mi sembra di un errore.
In questo caso mi piacerebbe capire da cose sia nato questo errore.
La ringrazio per la cortese attenzione e resto in attesa di una sua gentile risposta
Donatella Misler
 
Nota : Ho letto le informazioni su Hussein Hamada sui giornali israeliani in lingua inglese su Internet; i giornali ne hanno parlato ampiamente sin dal primo giorno, quando ancora si sperava che fosse sopravvissuto al terremoto.
Ripubblichiamo l'articolo di Dacia Maraini dell' 8 aprile:
Quei volti bianchi di paura con la voglia di ricominciare

Il popolo d’Abruzzo, i palazzi crollati e il dolore che non finisce
di DACIA MARAINI
N
on si è can­cellata la memoria del mo­ struoso terremoto del 1915 ed ecco che in­combe un altro grande sfracello che scuote la terra, butta giù le case, ucci­de e ferisce chi ha la sfortuna di abi­tare in Abruzzo. Anche il terremoto del ’15 che aveva come centro Avez­zano si è presentato di notte quando la gente dormiva, facendo piu di trentamila morti. Le case dei contadi­ni erano costruite senza fondamenta e sono cadute come fossero di carto­ne, una sull’altra, seppellendo intere famiglie colte nel sonno. Ma oggi, con la tecnologia nuova e le nuove conoscenze, ci si aspettava che le ca­se fossero piu resistenti, soprattutto quelle costruite dopo i terremoti che si sono susseguiti nei primi anni del Novecento e dopo l’ultimo dell’80.

E invece no: le prime a essere dan­neggiate sono state proprio le costru­zioni che avrebbero dovuto garanti­re sicurezza e asilo: la prefettura, l’ospedale, gli alloggi per gli studen­ti. Strutture per cui sono stati spesi tanti soldi pubblici e che erano date per sicure ed elastiche. La questione della resistenza ai terremoti infatti non sta nella robustezza delle archi­tetture ma nella loro elasticità. Che permette alle case di assorbire le scosse senza esserne frantumate. È lecito dubitare della correttezza del­le ultime ricostruzioni? La risposta è piu sì che no. Ma questo si vedrà quando l’emergenza sarà finita e si ripenserà al sisma con più tranquilli­tà.

Sono rientrata da Los Angeles, cit­tà che convive con i terremoti e per­ciò si è perfettamente attrezzata per affrontarli e ha stabilito regole rigi­dissime per chiunque voglia costrui­re case nuove. La notte stessa del mio arrivo vengo svegliata nella mia casa di Roma da una scossa che fa tremare il letto e butta giù dagli scaf­fali alcuni libri. Mi sveglio spaventa­ta. Mai immaginando che quelle scosse venissero dal mio amato Abruzzo e che fossero le ultime pro­paggini di un sisma furibondo che partiva dalle piccole città di Pagani­ca e Onna per arrivare, ormai sfiata­te fino alla capitale.

Solo la mattina dopo ho saputo quello che era successo. Mi sono af­frettata a chiamare gli amici ma le li­nee erano bloccate. La preoccupazio­ne è diventata assillante. Poi ho vi­sto sullo schermo quei corpi estratti dalle macerie, quelle case sgretolate, quelle facce bianche di spavento e di polvere ed mi si è stretto il cuore.

So bene cosa sia la paura che incu­te il terremoto. Ne ho sofferto da bambina in Giappone, paese che co­nosce la quotidiana inquietudine di una terra mai ferma e stabile. La guerra stava per finire, ero in campo di concentramento, ero bambina. Ma ricordo perfettamente un terre­moto catastrofico che ci colse una mattina all'alba. Siamo stati svegliati da un boato e poi le mura hanno co­minciato a tremare. Ci siamo precipi­tati per uscire. Io cercavo di scende­re le scale ma non riuscivo a stare in piedi. Sono arrivata in basso seduta sui gradini, guadagnando la discesa un gradino per volta, mentre dietro
di me sentivo cadere pezzi di parete ed ero raggiunta e soffocata da calci­nacci e polvere.

Ricordo che mio padre acchiappò per un piede mia sorella Toni che sta­va precipitando dalla tromba delle scale. Quando siamo riusciti a rag­giungere la porta di ingresso, ci sia­mo trovati davanti un cortile divel­to, la terra che si apriva sotto i nostri piedi. Eppure, nonostante la violen­za di quelle scosse, la casa non è ca­duta. Perché era stata costruita con criteri antisismici. L’ho vista letteral­mente piegarsi da una parte e poi dall’altra come un giocattolo di gom­ma, ma non è andata in pezzi. È que­sto
che dovremmo imparare dal Giappone: la grande sapienza in fat­to di movimenti tellurici, la tecnolo­gia avanzata in fatto di prevenzione e ricostruzione.

Oggi vedo sulle facce degli abruz­zesi colpiti dal terremoto quella stes­sa paura che lascia senza fiato, quel­­l’incertezza del futuro che ti attana­glia. Però vedo anche la voglia di aiu­tare, di rimboccarsi le maniche e da­re una mano. A sentire i miei amici per telefono, sono tutti in moto gli abruzzesi da lunedì mattina, anche coloro che non sono stati colpiti di­rettamente dalla sciagura. Come sempre il nostro paese dà il meglio di sé nei momenti di pericolo. La ge­nerosità si esprime in silenzio, senza esibizione e viene raccontata da per­sona a persona. Come quella dell’uo­mo che ha rischiato la vita arrampi­candosi su un balcone pericolante per salvare una bambina, figlia di vi­cini. O quella della ragazza che è tor­nata nella casa che stava crollando per tirare fuori un anziano incapace di muoversi, o ancora quella degli studenti che hanno scavato a mani nude tutta la notte per salvare uno di loro rimasto incastrato fra le travi
di cemento. Ci sono anche gli sciacalli, come sempre. Vilissimi individui che ap­profittano del disastro e della dispe­razione per intrufolarsi in casa d’al­tri e portare via qualche oggetto di valore. Sono gli stessi che in tempi di quiete, vanno davanti alle scuole a distribuire la droga ai ragazzini, gli stessi che chiedono il pizzo e quan­do uno non paga lo uccidono con una pistolettata. Una Italia brutale e senza scrupoli , abituata a vivere con­tro gli altri e sopra gli altri.

Il dolore. Come affrontare un dolo­re così vasto, così capillarmente dif­fuso e collettivo? Sono stati chiamati degli psicologi. Ma cosa possono fa­re dei tecnici della psiche in una si­tuazione di così grave emergenza? Quando manca il letto per dormire, l’acqua per lavarsi, un piatto caldo per nutrirsi, è difficile interrogare e sollevare una psiche rattrappita e of­fesa.

Fra le tante storie mi ha colpito quella degli studenti che abitavano nella casa costruita per loro, al cen­tro dell’Aquila. Una palazzina appa­rentemente elegante ma tirata su con disinvoltura e disprezzo della vi­ta. I pezzi di muro che sono rimasti in piedi mostrano pareti sottili e fra­gili,
friabili come fossero di biscotto. Da lì alcuni sono scappati quando hanno sentito i boati, le scosse e gli scricchiolii sinistri che hanno prece­duto il grande terremoto. Altri inve­ce sono rimasti, perché nessuno li aveva avvisati del pericolo imminen­te, della fragilità della casa. Lì sono sotterrati alcuni studenti che oggi avrebbero potuto essere vivi. Com­preso un ragazzo che era scampato alle bombe di Gaza ed è rimasto se­polto sotto le macerie di una casa abruzzese, in una città civile, bella e pacifica.

Tante altre invece sono storie do­lorose
di incontri con la morte che sembrano essere stati decisi altrove con sadica crudeltà. Un ragazzo che va a dormire dalla nonna che è sola e muore con lei mentre tutta la fami­glia si salva nella casa dove abitava. Una sorella sceglie la gita scolastica e si salva mentre l’altra che decide di rimanere in casa con la madre, muo­re stritolata.

Qualcuno dice che la maggior par­te di queste morti si potevano evita­re. C’erano state decine di scosse per tutta la settimana precedente. Una fortissima poi aveva allarmato gli aquilani la sera di domenica alle 23. Molti avevano telefonato chiedendo un parere. Ed era stato loro risposto che dovevano rimanere in casa, che non c’era pericolo. Si sa che non si possono prevedere con esattezza i terremoti, ma certamente si posso­no mettere in funzione delle strate­gie di difesa e di fuga quando un ter­remoto si annuncia con tanta insi­stenza come questo. Per lo meno si doveva avvertire la gente che c’era un pericolo, anche se non certo. Si poteva dichiarare pubblicamente che a tante scosse poteva seguire un’onda micidiale.

Un’altra storia che commuove per la sua umiltà e allegoricità è quella delle pantofole zuppe d’acqua che le donne sono state costrette a portare ai piedi essendo scappate di casa sen­za avere il tempo di infilarsi le scar­pe. La casa è vicina, nell’armadio ci sono gli scarponcini da fango, imper­meabili e calde. Ma è proibito entra­re, per qualsiasi ragione. Dovranno tenersi addosso le pantofole fatte pe­santi dalla mota. Poi finalmente ec­co il sole. La mattina di martedì si presenta fredda ma assolata. E im­provvisamente spuntano centinaia di pantofole, povere, stanche e spor­che, posate qua e di là sulle pietre, sui legni abbandonati, sui pezzi di ca­sa rimasti in piedi, per poterle final­mente rimettere ai piedi asciutte.

Tanti dicono che «hanno scavato a mani nude». Ma cosa vuol dire? Sembra una frase fatta, ma diventa la verità quando non si trovano in gi­ro né vanghe né badili ne zappe, né torce né carriole. Sono questi gli stru­menti che dovrebbero stare ad ogni angolo di strada nei paesi a rischio sismico. Come nei treni, dentro te­che apribili con un colpo, pronte al­l’occorrenza. E invece molti si sono trovati a scavare con pezzi di carto­ne, barattoli vuoti, strumenti im­provvisati e inefficienti.

Cosa augurare a un paese così po­co attento alle regole, così portato ad un anarchismo che si confonde con l’arbitrio puro? Cosa possiamo auspicare se non di imparare qualco­sa dagli errori del passato? Meno pro­getti grandiosi e più lavoro umile e fattivo sul territorio soprattutto quando è a rischio sismico. Un pen­siero piu generoso, una visione più grande e più spaziosa del futuro, che comprenda l’interesse del paese e non solo il nostro piccolo tornacon­to. È troppo chiedere?

 

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