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Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.01.2009 Noi, i deportati che l'Italia non vuole riconoscere
Il servizio di Alessandra Farkas

Testata: Corriere della Sera
Data: 06 gennaio 2009
Pagina: 16
Autore: Alessandra Farkas
Titolo: «Noi, i deportati che l'Italia non vuole riconoscere»

La denuncia Sopravvissuti ad Auschwitz o fuggiti dal Duce: sono stati privati della cittadinanza nel '39 e non riescono a riaverla

«Noi, i deportati che l'Italia non vuole riconoscere»

Dal CORRIERE della SERA del 04/01/2009, il servizio di Alessandra Farkas a pag.16.


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK — Sono nati da genitori italiani, la maggior parte di loro in Italia. La stessa che, dopo averli perseguitati ed esiliati, adesso si rifiuta di riconoscerli per ciò che sono: italiani. L'odissea di Claude Ghez, Stella Levi, Marcella Servi, Giorgina Vitale e Umberto Vorchheimer, ebrei italiani sopravvissuti al nazi- fascismo, ha dell'incredibile nell'Italia dove, come ha detto l'ex ministro della giustizia d'Israele Yossi Beilin, non basta entrare in sinagoga con la kippà per dimostrare di essersi liberati dal fardello di un ingombrante passato.
«Se fossi tedesco la mia cittadinanza sarebbe stata ripristinata dal dopoguerra», racconta Vorchheimer, 75enne milanese trapiantato a Filadelfia che da anni si batte per ottenere da Roma il riconferimento di un titolo rubatogli dai fascisti nel '39, a causa delle leggi razziali. Un obiettivo reso possibile dal fatto che sia gli Usa che l'Italia ammettono la doppia cittadinanza. Dopo che la sua storia è apparsa sul Corriere, si è mobilitata Fiamma Nirenstein, vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera (Pdl) che è riuscita a convincere il Ministero degli Interi a fare «un'eccezione ».
«Si ritiene che il predetto non sia mai incorso nella perdita della cittadinanza italiana», recita un protocollo inviato a Vorchheimer dal ministero dell'Interno in data 5 dicembre, che due righe prima dice esattamente il contrario: «all'atto della naturalizzazione statunitense dell'interessato, nel 1944, lo stesso riteneva di versare in condizione di apolidia per esserne stato privato nel 1939».
La tortuosa formula — e la natura strettamente individuale del protocollo — sopperiscono alla mancanza, in Italia, di una legge come quella tedesca (articolo 116 par.2) secondo cui «tutti i tedeschi che dal '33 al '45 persero la cittadinanza per motivi politici, razziali o religiosi, e i loro discendenti, possono riacquistarla automaticamente facendone domanda». Lo scorso 31 ottobre la Spagna ha varato un decreto analogo.
In Italia la 91/1992 prevedeva, in via strettamente transitoria, la possibilità di riottenere la cittadinanza senza dover trasferire la residenza in Italia, facendo domanda entro il 31 dicembre 1997. Oltre ad essere scaduta, tale legge non affrontava la spinosa questione dei tantissimi ebrei italiani costretti dal fascismo a scappare all'estero.
«Chissà quanti ebrei italiani sono morti in terre lontane senza poter mai correggere quest'ingiustizia », afferma Vorchheimer. Ne sa qualcosa l'83enne Stella Levi, nata nel '26 a Rodi, allora italiana, e sopravvissuta ad Auschwitz, dove perse i genitori Miriam e Jehuda. Nel 1979, quando si presentò al Consolato italiano di New York per rinnovare il passaporto scaduto, la Levi scoprì d'aver perso la cittadinanza italiana acquistando quella statunitense. Più tardi le dissero che «se la rivuoi, devi andare a vivere in Italia per almeno due anni». Non meno dolorosa l'odissea dell'82enne Giorgina Vitale, torinese emigrata in Connecticut, che da ben 15 anni cerca di coronare lo stesso sogno della 78enne Marcella Servi, nata a Pitigliano e oggi residente in Israele. Figlia di Giorgio deLeon, uomo d'affari, e Emma Segrè, insegnante, la Vitale si salvò con dei documenti falsi, nascondendosi per due anni a Piea, villaggio vicino ad Asti. «Lo zio paterno fu catturato durante un'incursione — rievoca — e spedito in un campo di sterminio da cui non ha mai fatto ritorno».
Figlia del rabbino di Pitigliano, Marcella Servi nel '43 evitò la deportazione ed insieme al fratello si aggregò ad un gruppo di partigiani che operarono nella zona fino alla liberazione. «I miei genitori ed altri fratelli furono portati al campo di concentramento di Roccatederighi ma per fortuna non vennero deportati in Germania».
Per riottenere la cittadinanza, le due donne si sono sentite dire più volte «devi completare l'iter come un extracomunitario qualsiasi, tornando a vivere in Italia». Proprio come il Prof. Claude Ghez, 69enne luminare di neuroscienze alla Columbia University, la cui madre Nella Treves e nonna Carinna di Castelnuovo furono costrette dal fascismo a fuggire da Torino nel 39.
Eli Guastalla, consulente di marketing internazionale, milanese, ebbe più fortuna. Nato nel 1946 a Tel Aviv e discendente da una famiglia di ricche tradizioni patriottiche — lo zio Enrico, lapide in corso Monforte a Milano e busto al Pincio a Roma, fu colonnello dello stato Maggiore garibaldino e il nonno Ferruccio questore del regno — Guastalla querelò il Viminale e, con una sentenza del tribunale di Milano, nel 1980 riottenne la cittadinanza strappata ai genitori.
«Costretti a fuggire in Palestina, allora sotto mandato Britannico », spiega Guastalla, «si erano ritrovati nell'assurda situazione di essere indesiderati in Patria e nemici nel Paese dove si erano rifugiati. Come altri ebrei italiani — precisa — anche papà fu internato».

 Claude Ghez e Stella Levi, due casi di ebrei privati della cittadinanza italiana.
Nella foto grande il matrimonio in Italia dei genitori di Ghez e il passaporto della madre, prima di essere costretta a fuggire all'estero

 
 
 
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