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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.11.2008 Somalia ed Egitto, due storie al femminile
Orrore e indignazione

Testata: Corriere della Sera
Data: 01 novembre 2008
Pagina: 18
Autore: Cecilia Zecchinelli-Alessia Rastelli
Titolo: «Somalia,l'adultera lapiodata era una bimba di 13 anni-Egitto,l'avvocatessa l'abbandona: E' israeliana»

Somalia, l'«adultera» lapidata era una bimba di 13 anni rapita e stuprata da tre uomini

Il padre: «Aisha stava andando a trovare la nonna»

di Cecilia Zecchinelli

Titolo e occhiello sul CORRIERE della SERA di oggi, 01/11/2008 a pag. 18, nel servizio di Cecilia Zecchinelli. Avevamo riportato ieri la  cronaca della lapidazione, ma oggi il fatto - se possibile - è ancora pù grave.  Aisha aveva solo 13 anni, e stava andando a trovare la nonna. Come nella favola di "Cappuccetto Rosso", ha incontrato i lupi seguaci della Sharia, che l'hanno violentata. La società nella quale viveva ha fatto il resto.Era lei la colpevole dello stupro collettivo, per questo ha meritato quella morte atroce.

Il servizio successivo, di Alessia Rastelli, riguarda l'Egitto, da leggere per capire come anche in un paese che non appartiene al gruppo degli stati canaglia, la condizione della donna sembra appartenere al passato più oscuro. Se poi  la vittima ha un passaporto israeliano la sua sorte è segnata.

Scontro di civiltà ? Noooooooo !!  Ecco i due servizi:

La notizia del linciaggio era rimbalzata in tutto il mondo, ma si era detto che aveva 23 anni perché sembrava più grande della sua età
Aveva solo 13 anni, non 23 come tutti dicevano. Andava ancora a scuola e come nella favola di Cappuccetto Rosso era partita un giorno per andare a trovare la nonna, a Mogadiscio. Ma sulla strada era stata rapita e violentata da tre uomini, appartenenti quasi di certo allo stesso gruppo di 50 fanatici che lunedì l'ha lapidata come «adultera» sulla piazza di Chisimaio, Somalia del Sud. Con la complicità del «giudice islamico» a cui lei si era rivolta, disperata ma combattiva, chiedendo giustizia per quello stupro e finendo ammazzata sotto gli occhi di centinaia di spettatori. Qualcuno aveva cercato di salvarla, invano: gli estremisti avevano aperto il fuoco, colpito e ucciso un bambino.
I nuovi, orribili dettagli della già feroce storia di Aisha Ibrahim Dhuhulow sono arrivati ieri dal Paese africano devastato dalla guerra civile, dove gli Shabàb e le varie fazioni delle Corti Islamiche si contendono il potere con un fragilissimo governo (ad interim), terrorizzando chi non è ancora scappato. Il padre di Aisha, Abraham, ne ha parlato a un giornalista di Radio Somaliweyn. Molti testimoni dell'esecuzione con Amnesty International. «Mia figlia viveva con me in Etiopia nel campo profughi di Dhagahbur — ha spiegato —. Non era sposata, era solo un bambina. Mi ha chiesto di andare a trovare la nonna nella capitale somala, le ho detto di sì perché l'amavo tanto. Ma un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che all'indomani l'avrebbero uccisa. Mi ha detto che era stata rapita dalle milizie, che tre uomini l'avevano stuprata. E che quando era andata dal giudice questo, invece di aiutarla, l'aveva condannata alla lapidazione. I tre violentatori lasciati liberi. Non è Islam questo. Chi l'ha uccisa deve pagare il prezzo di quel sangue».
Martedì la storia di Aisha era filtrata sui media internazionali anche perché gli Shabàb — la «gioventù» con simpatie qaediste che da agosto ha riconquistato Chisimaio — avevano dato ampia pubblicità alla lapidazione. «Rara ma giusta — aveva detto il «giudice», sheikh Hayakalah a Radio Shabelle —, lei stessa ha confessato». Ma lei, la tredicenne che alcuni testimoni avevano ritenuto ben più grande dall'apparenza, aveva fatto di tutto per liberarsi, dimostrando di non aver certo «accettato la giusta punizione».
«Quella bambina ha sofferto un morte atroce, l'ennesimo abuso dei combattenti in Somalia su cui è cruciale lanciare un'indagine internazionale», condanna Amnesty. E aggiunge che chiunque osi sfidare gli Shabàb — giornalisti, politici, dipendenti pubblici, attivisti per i diritti umani — rischia di fare la stessa fine di Aisha. Quasi tutti, se possono, scappano.

Egitto, l'avvocatessa la abbandona: «E' israeliana»

Noha Rushdi era stata la prima donna a far condannare un uomo per molestie sessuali

di Alessia Rastelli


«La Storia ricorderà la giovane Noha come la prima donna egiziana molestata che sia riuscita a far condannare il suo aggressore ». Iniziava così, una settimana fa, l'editoriale del quotidiano del Cairo Almasry Alyoum, una delle numerose voci, in Egitto e all'estero, che hanno celebrato la caparbietà della ragazza e il talento dei suoi legali in occasione della sentenza senza precedenti. Trascorrono solo pochi giorni però, e proprio l'avvocatessa, la donna che più si è spesa per la vittima, passa dall'altra parte: in appello difenderà l'aggressore perché ha scoperto, dice, che Noha ha il passaporto israeliano.
A rivelarlo, l'emittente Al Arabiya, alla quale l'avvocatessa Naglaa al-Imam ha spiegato di aver indagato sulla sua ex cliente, accorgendosi che Noha Rushdi Saleh, 27 anni, regista, «è nata a Jaffa e che suo padre vive ancora lì». Secondo la nuova tesi della legale, quindi, la ragazza, si sarebbe inventata tutto per screditare l'Egitto e trarne un guadagno personale. All'avvocatessa, aggiunge la tv araba, hanno dato fastidio anche alcune frasi pronunciate dalla giovane in un'intervista: «Israele è un Paese rispettabile » avrebbe detto rispondendo alla domanda se le aggressioni sessuali avvengono pure a Gerusalemme.
«La reazione della legale non mi sorprende» commenta Massimo Campanini, professore di Storia contemporanea dei Paesi arabi all'Orientale di Napoli. «Quella tra Egitto e Israele è sempre stata una "pace fredda" — spiega —: premettendo che non si tratta di antisemitismo ma di una questione politica, quanto accade a livello di governi va distinto dal sentire dell'uomo della strada egiziano, che nutre comunque per Israele un certo sospetto».
Dal punto di vista diplomatico, l'Egitto si è accreditato a giocare un ruolo chiave per la pace in Medio Oriente. Risale agli stessi giorni della sentenza sul caso Noha, la visita di Shimon Peres a Sharm-el Sheikh — la prima in Egitto di un capo di stato israeliano da 12 anni — e i suoi colloqui con il presidente egiziano Hosni Mubarak sulla questione palestinese. Eppure, anche in casa israeliana, sono bastati solo pochi giorni perché, mercoledì scorso, il leader dell'estrema destra alla Knesset, Avigdor Lieberman, mandasse «al diavolo » Mubarak a proposito del suo antico rifiuto di visitare Israele, costringendo Ehud Olmert alle scuse ufficiali.
Fuori dalla politica, intanto, l'ultimo capitolo della storia di Noha riaccende la rabbia dei gruppi femministi, gli stessi che da mesi denunciano il «cancro sociale» delle aggressioni sessuali (ne è stata vittima l'83% delle donne locali, secondo un rapporto diffuso ad agosto). Al giornale Middle East Times, Noha garantisce di avere un passaporto egiziano ma alle femministe qualunque rassicurazione appare di troppo. Per loro lei è la donna che ha fatto condannare a tre anni il camionista che la aggredì a giugno per le vie del Cairo, in un Paese dove la prima proposta di legge per rendere le molestie sessuali un reato risale a tre mesi fa. «Il caos creato dall'avvocatessa potrebbe solo spingere a non pronunciare più sentenze contro le aggressioni — protesta Engy Ghozlan dell'Egyptian Center for Women's Rights —. Ciò che conta non è il passaporto. Anche se Noha fosse israeliana, resta il fatto che è stata molestata ».

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