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Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.10.2008 Diritti umani e libertà d'espressione negati
dai regimi, dal fondamentalismo e anche dall'Onu

Testata: Corriere della Sera
Data: 24 ottobre 2008
Pagina: 53
Autore: Giuseppina Manin - G. Ga - Sergio Romano
Titolo: «Mira Nair: per paura dell'Islam l'Onu ha boicottato il mio film - Iran, in nove mesi 228 esecuzioni Uccisi sette minori - PERCHÉ L'IRAQ DI SADDAM ERA ODIATO DAGLI ISLAMISTI»

Dal CORRIERE della SERA del 24 ottobre 2008, riportiamo un articolo sul boicottaggio, compiutoda dall''Onu per paura dell'islam, di un film della regista Mira Nair:

ROMA — Che le promesse dei politici contino come il due di briscola si sa. Quando però 189 capi di Stato si impegnano solennemente in quella definita la Dichiarazione del Millennio: dimezzare entro il 2015 la povertà sul pianeta mettendo a segno otto obiettivi di sviluppo, allora non c'è cinismo che basti a metter da parte tanta speranza. Perché la scommessa è troppo grande, troppo vitale per tutti. Ma le parole volano. E gli otto punti sottoscritti all'Onu nel 2000 su invito di Kofi Annan sono, otto anni dopo, lettera morta. Nessuno sembra prendere più sul serio l'impegno di ridurre la fame che miete una vittima ogni quattro secondi, garantire l'istruzione elementare, promuovere l'uguaglianza tra i sessi, diminuire la mortalità infantile, migliorare la salute materna, combattere l'Aids, assicurare la sostenibilità ambientale e la collaborazione globale.
Così, a rinfrescare la memoria si sono mossi due produttori francesi, Marc Obéron e Lissandra Haulica, invitando otto registi di fama a girare altrettanti filmini su quei punti dimenticati. Ad accettare con entusiasmo, l'etiope Abderrahmane Sissako, il messicano Gael Garcia Bernal, l'indiana Mira Nair, l'americano Gus Van Sant, il peruviano Jan Kounen, il francese Gaspar Noe, l'australiana Jane Campion, il tedesco Wim Wenders. Il risultato del loro lavoro, 8, è stato accolto ieri al Festival di Roma con applausi, emozione, indignazione. Perché quella che si mostra è la fotografia di una vergogna avvallata dal mondo obeso e «progredito » che guarda con annoiata indifferenza chi nulla ha e nulla può chiedere. Ma c'è di peggio.
Dopo essersi «distratte » per otto anni, adesso sono proprio le Nazioni Unite a boicottare il film che si erano impegnate a sottoscrivere con il loro logo. «Il patto era di garantire la completa libertà dei registi ma quando hanno visto il primo episodio, quello di Mira Nair, l'hanno rifiutato giudicandolo offensivo per l'Islam», svelano i produttori.
Cosa ha mai mostrato di tanto provocatorio la regista di Monsoon Wedding?
Affrontando il tema delle «pari opportunità» Nair riferisce di una donna musulmana che decide di lasciare marito e figlio perché innamorata di un altro. «Una storia vera, anche discutibile — commenta —. Il sintomo di come anche sotto il velo esistano i diritti». A giudicarla inopportuna, precisa, è stata una singola rappresentante dell'Onu. «Ho cercato di parlarle per capire cosa potesse averla turbata. Ma lei non ha accettato il confronto».
A quel punto la richiesta è ufficiale: via l'episodio o ritiriamo il logo. «Naturalmente non abbiamo accettato — precisano i produttori —. I film dovevano essere otto, nessuno andava amputato ». Ma l'Onu non la prende bene. «Da quel momento hanno provato in ogni modo a fermarci. Hanno fatto pressioni sul festival di Cannes e su altre rassegne perché non ci prendessero ». Merito quindi al Festival di Roma di averlo presentato in prima mondiale. E sollevato un dibattito. «La soluzione di problemi così gravi non è nelle nostre mani ma in quelle dei nostri governi— avverte Wenders —. Quel che possiamo fare noi è sollecitare le promesse». Qualcuno ricorda che proprio l'Italia tenta in questi giorni di sfuggire ai suoi impegni ambientali. «Bisogna protestare — invita Wenders — Questo è un film che chiede al pubblico di agire. Tra tante realtà dolenti, il mio episodio si chiude con una buona notizia: il successo del microcredito tra i più poveri, soprattutto tra le donne. Che si comportano sempre con maggior responsabilità degli uomini».

Sempre dal CORRIERE, un articolo sulla pena di morte in Iran:


Ieri al Parlamento italiano la leader dei Mujahidin del popolo: 460 deputati e senatori chiedono la legalizzazione del gruppo
Solo la Cina uccide legalmente più di loro, ma con centinaia di milioni di abitanti in più. L'Iran, nella turpe classifica, guadagna un secondo posto che equivale a un primo: 228 esecuzioni nei primi nove mesi 2008, erano state 355 l'anno precedente e 215 nel 2006. Ma sono dati parziali, ammette «Nessuno tocchi Caino », l'associazione che si batte da anni contro la pena di morte: dal 14 settembre il regime vieta ai giornali la pubblicazione di notizie sulle esecuzioni. L'Iran uccide per strangolamento, impiccagione, lapidazione. E uccide non solo per reati comuni come omicidio e stupro, ma anche per reati economici e adulterio. Le esecuzioni toccano gli avversari politici, e non risparmiano i minori: nel 2008 ne sono stati giustiziati almeno 7, altrettanti nel 2007.
Il Paese dunque è un pericolo per il mondo, sostiene «Nessuno tocchi Caino», ma anche per il suo popolo. E l'opposizione in esilio (riunita nel Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana) è in difficoltà perché quella che forse è la principale delle sue fazioni, i «Mujahedin del popolo», è considerata organizzazione terroristica in Europa, Usa e Canada. Maryam Rajavi, presidente del Consiglio Nazionale e leader dei mujahedin, era ieri a Roma, ospite del Parlamento. Nel quale più di 300 deputati e 160 senatori di ogni schieramento hanno chiesto al governo di legalizzare il movimento, unica alternativa democratica al regime di Ahmadinejad. Una scelta politica difficile, per un Paese che importa dall'Iran il 15% del suo fabbisogno energetico.

La violenza del fondamentalismo e dei regimi suscita anche risposte ambigue e condizionate dall'ideologia , o tentativi apologetici.
 Tra le denunce che ci sembrano  ambigue,  quella della femminista egiziana Nawal El Saadawi che, intervistata da L'UNITA' e da LIBERAZIONE ,critica il regime di Mubarak e i fondamentalisti, ma , proprio come i fondamentalisti, dà la colpa agli Stati Uniti di ciò che non le piace nel mondo arabo e islamico . Nel suo caso la democrazia e la mancanza di diritti umani. Per ottenerle non sarebbe meglio incominciare a guardare alle responsabilità interne delle società arabe e musulmane ?

Tra i tentativi apologetici, segnaliamo quello di Sergio Romano che rispondendo a un lettore sul CORRIEREdella SERA sostiene che la natura laica del regime baathista avrebbe fatto dell'Iraq di Saddam Hussein un naturale alleato degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo islamista.
Oltre a negare, contro i fatti,  i contatti tra Al Qaeda e i servizi segreti iracheni, e il programma di sviluppo di armi di distruzione di massa, del resto già utilizzate da Saddam Hussein contro la popolazione curda, Romano presenta un'immagine assolutamente edulcorata dell'ideologia baathista, che nella sua ricostruzione è una forma di illuminato socialismo laico. In realtà, il Baath è sempre stato un partito nazista, antisemita e antioccidentale, improntato al più totale disprezzo dei diritti umani. In questo senso, contrariamente a quanto sostiene Romano, Saddam Hussein non ha affatto tradito la lezione di Michel Aflaq, il fondatore del Baath.

Mi è veramente difficile immaginare un Saddam Hussein a fianco dell'Occidente nella lotta al terrorismo islamico. Che interesse avrebbe avuto, visto che il 95% degli iracheni sono islamici? E poi in cambio di che cosa si sarebbe impegnato? Della bomba atomica?
Luca Cremaschi
lucacremaschi@inwind.it
Caro Cremaschi,
L ei si riferisce a una risposta in cui ho scritto che Saddam Hussein avrebbe potuto essere un efficace alleato degli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo e che l'invasione del-l'Iraq, se questo era effettivamente il principale obiettivo della politica di Bush, fu un errore. Il Paese, come lei osserva, è prevalentemente musulmano. Ma il partito Baath, di cui Saddam fu il principale esponente iracheno, venne fondato nel 1940 da un cristiano della Siria e fu sempre detestato dai movimenti islamici del Medio Oriente.
Il fondatore si chiamava Michel Aflaq. Negli anni Trenta, con una borsa di studio, andò a Parigi, si iscrisse alla Sorbona, lesse voracemente le opere dei maggiori pensatori delle generazioni precedenti, da Marx a Nietzsche, da Mazzini a Lenin. Erano gli anni in cui gli studenti socialisti e comunisti si scontravano nelle vie del Quartiere Latino con i militanti delle Leghe d'ispirazione nazionalista e fascista. Nel fascismo italiano e nel nazional- socialismo tedesco Aflaq credette di trovare tutti gli ingredienti necessari alla modernizzazione delle società arabe e alla nascita di un grande movimento pan-arabo: un partito di massa, un apparato composto da militanti laici, una società militarizzata e pronta a difendere la patria contro le potenze coloniali, una economia diretta dall'alto con una forte partecipazione dello Stato, capace di dare lavoro e prosperità ai ceti più miserabili della popolazione.
Quando tornò in patria, nel 1934, divenne insegnante nelle scuole medie, ma non smise di agitare progetti politici e di lavorare alla creazione di un grande movimento. Il Baath (in arabo, risorgimento o rinascita) fu costituito nel 1940 e divenne partito dopo la fine della guerra, nel 1947. Lo slogan preferito da Aflaq in quegli anni era: «Il socialismo è il corpo, l'unità araba è l'anima». Odiato dagli islamisti, il Baath si divise ben presto in diverse fazioni. I panarabisti erano favorevoli all'unione della Siria con l'Egitto di Gamal Abdel Nasser. I nazionalisti preferivano puntare sulla creazione di un forte Stato siriano. I massimalisti predicavano l'intervento massiccio dello Stato nell'economia. I moderati preferivano un sistema in cui le aziende dello Stato avrebbero convissuto con l'economia del bazar. Queste divisioni non impedirono tuttavia al Baath iracheno e al Baath siriano di conquistare il potere, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta. Deluso dal prevalere delle tendenze nazionaliste, Aflaq perdette il controllo del movimento, ma conservò il rispetto e l'amicizia fedele di Saddam Hussein che lo volle accanto a sé per alcuni anni. Morì, probabilmente a Bagdad, nel 1989.
Anche Saddam tradì l'ispirazione ideale di Aflaq. Il suo regime divenne tirannico, clientelare, poliziesco e duramente repressivo, soprattutto verso la maggioranza sciita e il gruppo nazionale curdo. Ma lo stile dello Stato fu quello del Baath, vale a dire nazionalista, laico e socialista. E gli islamisti detestarono Saddam quanto detestavano l'America di Bush. La tesi secondo cui i servizi segreti iracheni avevano relazioni cordiali con Al Qaeda, di cui gli Stati Uniti si servirono per giustificare la guerra irachena, si dimostrò del tutto infondata. Debbo quindi insistere, caro Cremaschi. Per la guerra al terrore, se era questa la maggiore preoccupazione di Bush, Saddam sarebbe stato un buon alleato, non un nemico da distruggere.

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