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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.06.2008 Sergio Romano interpreta il Libano
Israele,Siria e Iran hanno eguali responsabilità

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 giugno 2008
Pagina: 17
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Il Libano che teme la guerra civile e si ferma sull'orlo del precipizio»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, 07/06/2008, a pag.17, con il titolo " Il Libano che teme la guerra civile e si ferma sull'orlo del precipizio", Sergio Romano pubblica il primo di una serie di articoli. Segnaliamo alcune frasi, che consentono di capire le posizioni di Romano, essendo il primo servizio un breve sommario di storia libanese. Cominciamo con " A causa della sua fragilità il Paese ha la sventura di essere soggetto agli appetiti dei suoi potenti vicini. A causa della sua parcellazione politico-religiosa è il luogo in cui si combattono per procura tutti i conflitti della regione." Gli appetiti dei suoi potenti vicini ? Tutti ? Quali sarebbero gli appetiti di Israele, se non la volontà di impedire le aggressioni di Hezbollah, diventato il vero padrone del Libano con la benediazione di Siria e Iran ? Questo Romano non lo scrive. Allineare Israele, che non ha alcuna mira espansionista, con Siria e Iran, permette a Romano di falsificarne le posizioni. Per spiegare poi come la democrazia in Libano sia ormai un ricordo del passato, Romano la spega così  "  Il Libano della giovinezza del Patriarca Sfeir, il Paese dinamico e felice in cui la maggioranza cristiana esercitava una sorta di egemonia culturale, ha cessato di esistere. È scomparso durante la guerra civile quando un milione di persone, prevalentemente maronite, abbandonò il Paese. " Abbandonò il paese ? , così, senza spiegarne i motivi, Romano elude di affrontare la vera storia del Libano, un paese invaso prima dai Fedayin di Arafat, e poi distrutto dalle guerre civili culminate con la vittoria di Hezbollah. Senza spiegare questo percorso, diventa un gioco da ragazzi attribuire a Israele tutte le responsabilità. Che è quello che fa regolarmente Sergio Romano nella sua pagina quotidiana di commenti sul CORRIERE della SERA.  Ecco l'articolo:

BEIRUT — Mentre lavorava alla formazione del nuovo governo libanese, il generale Michel Suleiman, presidente della Repubblica, ha chiesto che venissero rimossi dalle strade di Beirut i suoi ritratti, apparsi in gran numero, dopo la sua elezione, sulle facciate delle case e nelle vetrine dei negozi.
Il maronita Suleiman è un uomo sobrio, pacato, poco loquace. Ma la richiesta, in questo caso, non è un segno di modestia. Nelle strade di Beirut non esistono soltanto i ritratti del capo dello Stato. Le fotografie dei leader, spesso grandi quanto l'intera facciata di una casa, annunciano l'identità religiosa e politica di una zona urbana. So di essere nel quartiere di Amin Gemayel, capo delle Falangi cristiane, perché la piazza principale è dominata dalla gigantografia del figlio Pierre, esponente della maggioranza anti-siriana, assassinato nel novembre del 2006 quando era ministro dell'Industria nel governo di Fouad Siniora. So di essere in un quartiere sciita perché la strada principale è tappezzata dai ritratti di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, e da quelli dei «martiri» caduti combattendo contro Israele.
Quasi tutti i quartieri di Beirut sono religiosamente omogenei e alcuni di essi «gridano» la loro identità esponendo l'immagine del leader di cui sono elettori. Chiedendo la rimozione dei suoi ritratti Suleiman chiede alla classe politica di fare altrettanto e di rinunciare alla spartizione di Beirut fra aree d'influenza. Vorrebbe che il Libano smettesse di essere un mosaico di comunità religiose (sono diciotto) e divenisse finalmente uno Stato di cittadini, eguali di fronte alla legge, uniti dall'appartenenza a una stessa nazione. È il sogno di tutti i riformatori. Non chiedono ai loro connazionali di rinunciare alla propria fede religiosa, ma vorrebbero che accanto all'identità confessionale vi fosse in ciascuno di essi il patriottismo libanese. Ogni crisi si conclude con un invito all'unità nazionale, unico rimedio contro le fazioni che dividono il Paese sin dal giorno, nel 1920, in cui il generale Henri Gouraud, conquistatore di Damasco, ne proclamò la nascita sotto le ali protettrici della Repubblica francese. Vi è persino qualcuno che vorrebbe conferire ai poteri pubblici una funzione tipica dello Stato moderno, ma esercitata in Libano dalle singole comunità religiose: lo stato civile. Sino a quando le nascite, le morti, il diritto matrimoniale e le disposizioni testamentarie saranno nelle mani delle singole confessioni, il Libano continuerà a essere un vestito d'Arlecchino, cucito con le pezze colorate di diciotto staterelli ecclesiastici. Occorre uscire da questa versione estrema della multiculturalità per creare infine il cittadino libanese.
Peccato che le crisi si concludano generalmente grazie ad accordi che ribadiscono l'esistenza delle comunità religiose e il loro ruolo nella gestione politica del Libano. Ridotto all'osso, il patto firmato nello scorso maggio a Doha nel Qatar è soltanto lo strumento con cui i firmatari riconoscono che la storia e la demografia hanno modificato i rapporti di forza fra i tre maggiori gruppi religiosi: cristiani, sunniti e sciiti. Non esistono dati ufficiali perché un censimento periodico, come nei Paesi occidentali, avrebbe qui il pericoloso effetto di riaprire interminabili discussioni sulla spartizione delle maggiori cariche istituzionali. Ma non è necessario un censimento per sapere che gli sciiti, dopo essere stati per molto tempo l'ultima ruota del carro della società libanese, sono oggi, grosso modo, la metà del Paese. A Doha è stato deciso che il governo si comporrà di trenta ministri, che undici di essi saranno sciiti e che le maggiori decisioni verranno prese con la maggioranza dei due terzi. Il diritto di veto, che Hezbollah ha chiesto insistentemente sin dalla fine del 2006, è quindi ormai nelle sue mani. Non basta. Quando tornerà alle urne, probabilmente fra un anno, il Paese voterà con una nuova legge, approvata a Doha, che prevede distretti elettorali più piccoli e garantisce il seggio al gruppo religioso dominante. Il prossimo Parlamento sarà quindi, ancora più dell'attuale, il riflesso fedele del puzzle religioso libanese.
L'esperimento tentato dal governo di Fouad Siniora negli scorsi mesi (la coalizione sunnita-cristiana al potere, gli sciiti e i loro alleati all'opposizione) è drammaticamente fallito nel momento in cui il presidente del Consiglio ha cercato di togliere a Hezbollah alcuni degli strumenti che consentivano alla maggiore organizzazione sciita di essere uno Stato nello Stato. La solidarietà nazionale, in altre parole, si conquista soltanto riconoscendo che il Libano, oggi, può essere soltanto una democrazia consociativa.
All'ascesa politica degli sciiti corrisponde il declino demografico e politico delle comunità cristiane. Ho incontrato il Patriarca dei maroniti, Nasrallah Boutros Sfeir, nel suo palazzo di Bkirki alle pendici delle colline che salgono verso il Monte Libano: un piccolo «Vaticano» bianco in stile neoclassico circondato da chiese e da alberi contro lo sfondo di un cielo impeccabilmente azzurro. Capo di una Chiesa che riconosce il primato del vescovo di Roma, Sfeir è anche cardinale ed è il leader spirituale di una comunità religiosa composta da circa otto milioni di fedeli dispersi su cinque continenti. Ormai quasi novantenne ricorda con nostalgia l'epoca in cui il presidente della Repubblica, tradizionalmente maronita, veniva eletto con largo consenso prima che terminasse il mandato del predecessore. Erano gli anni in cui i cristiani (soprattutto maroniti, ma anche greco-ortodossi, greco-cattolici, armeni, caldei, siriaci) rappresentavano la metà della popolazione. Erano gli anni — ricorda Sfeir — in cui i maggiori partiti cristiani erano protagonisti della vita politica nazionale. Oggi hanno perduto la loro autonomia. Due di essi appartengono alla coalizione anti-siriana del 14 marzo, creata dopo l'assassinio di Rafik Hariri nel 2005, e il terzo (quello del generale Michel Aoun) gioca in campo sciita accanto agli Hezbollah di Nasrallah e al partito Amal di Nabih Berri, presidente del Parlamento. Il Libano della giovinezza del Patriarca Sfeir, il Paese dinamico e felice in cui la maggioranza cristiana esercitava una sorta di egemonia culturale, ha cessato di esistere. È scomparso durante la guerra civile quando un milione di persone, prevalentemente maronite, abbandonò il Paese.
Resta da vedere se il nuovo compromesso raggiunto a Doha possa creare un nuovo Libano, meno cristiano e più sciita, ma pur sempre capace di alloggiare, all'insegna della convivenza e della reciproca tolleranza, il più largo ventaglio di comunità religiose esistente nel Mediterraneo. Beirut è sempre, ancor più del Cairo, un pezzo di Occidente sulle coste meridionali del Mediterraneo, una città in cui una larga parte della popolazione non rinuncia a considerarsi culturalmente e civilmente europea. Non esiste ancora uno Stato dei cittadini, ma lo spettro della guerra civile rappresenta pur sempre una sorta di paradossale collante. Dopo essersi ferocemente combattuti, i libanesi sembrano essere uniti dal timore di ricadere all'indietro nel peggior periodo della loro storia. L'improvvisa insurrezione di Hezbollah, dopo la prova di forza tentata dal premier Siniora, sembra indicare che i semi della discordia sono ancora all'opera.
Ma la rapidità con cui l'accordo è stato concluso dimostra che tutti gli attori del dramma, dopo essersi pericolosamente affacciati sull'orlo del precipizio, hanno saputo fare un passo indietro.
Non tutto, però, dipende dai libanesi. A causa della sua fragilità il Paese ha la sventura di essere soggetto agli appetiti dei suoi potenti vicini. A causa della sua parcellazione politico-religiosa è il luogo in cui si combattono per procura tutti i conflitti della regione. ll patto di Doha ha avuto il merito di evitare un nuovo conflitto civile. Ma darà buoni risultati soltanto se sarà riconosciuto dalla Siria, se l'Iran rinuncerà a servirsi di Hezbollah per i suoi scopi, se Israele metterà fine al suo contenzioso con il Libano restituendogli un pezzo di territorio nazionale (le fattorie di Sheba) occupato nel 1967. Il maggiore fattore di rischio è oggi ancora rappresentato dall'intreccio di interessi che lega da molti anni il movimento Hezbollah alla Siria di Bashar al Assad e all'Iran di Mahmud Ahmadinejad. Sarà questo l'argomento di un nuovo articolo.

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