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Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.11.2006 La memoria della Shoah che il Papa troverà in Turchia
un pezzo di storia ricostruito da Alberto Melloni

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: Alberto melloni
Titolo: «L'abitazione di Roncalli e i racconti della Shoah»

Sul prossimo viaggio del Papa in Turchia, pubblichiamo l'articolo di Alberto Melloni dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/11/2006,pag.1.

Ecco il testo:

Quando Benedetto XVI andrà sul Bosforo troverà le tracce dei suoi più immediati predecessori. Quelle del dimenticato Paolo VI, il papa del dialogo, che firmò la levata delle scomuniche fra Roma e Costantinopoli; quelle di Giovanni Paolo II, che fece visita al Fanar (il «vaticano» del patriarca ecumenico) nel 1979 e il cui europeismo largo includeva la laica Repubblica turca, non foss'altro per amore del «trono di Andrea» su cui siede il patriarca ecumenico. E troverà molte tracce di Roncalli.
Anzi abiterà la casa dove il futuro Giovanni XXIII, delegato apostolico e vescovo della minuscola comunità latina dal '35 al '44, vergò migliaia di pagine di agende private della sua missione, pubblicate ora con ineccepibile zelo da Valeria Martano. Un documento prezioso e prudente che consente di capire il raggio d'azione e le reticenze del rappresentante vaticano in un Paese la cui laicizzazione forzata imponeva a tutti (incluso Roncalli) il divieto d'indossare abiti religiosi. «Io amo i Turchi», scriveva il prelato bergamasco desideroso di dare un orizzonte non opportunistico alla sua missione fatta più di pazienza che di azione. E quel rigore nel rimanere un cristiano anche davanti alle situazioni più intricate gli avrebbe permesso di non restare inerte quando la Turchia — Israele non lo dimentica — diventò un ponte di soccorso e d'informazione nella Shoah.
Nella casa del quartiere di Pera dove entrerà il papa tedesco, sostarono fra il 1942 e il 1944 quei dirigenti in cerca di una solidarietà che Roncalli non fece mancare, così come non l'avrebbe fatta mancare a Parigi e poi a Roma. Molti dei passi compiuti da Roncalli in quelle ore disperate erano noti e documentavano un legame che s'affina, man mano che Roncalli capisce la densità teologica di quella cosa senza nome che ora chiamiamo Shoah. Altri dettagli inediti emergono dalla documentazione di Chaim Barlas, funzionario dell'organizzazione ebraica con base a Istanbul studiata da Dina Porat, relativa ai cosiddetti «protocolli di Auschwitz» e alla deportazione degli ebrei ungheresi.
Nell'aprile 1944 due ebrei slovacchi, Rudolf Vrba e Alfred Wetzler, riuscirono a fuggire da Auschwitz e dettarono un «racconto» di 30 pagine in cui spiegavano il destino dei deportati. La loro traccia, integrata dalla testimonianza di altri due fuggitivi (Cheslaw Mordowitz e Arnost Rozin) che a inizio giugno riferivano del già avviato sterminio degli ebrei ungheresi, fu sintetizzata in una memoria più breve, tradotta e diffusa dalle organizzazioni ebraiche in tutta Europa, specialmente in Svizzera. Anche prima dei «protocolli» si sapeva dell'intento genocida di nazisti e fascisti: ma essi trasformavano convinzioni generiche in dati precisi. E il 7 luglio 1944 il New York Times riferiva da «fonti svizzere» che due «campi modello» destinati allo «sterminio» e finora «occultati» erano stati scoperti nell'Alta Slesia, scrivendo un nome: Auschwitz.
Per questo l'effettiva circolazione dei «protocolli di Auschwitz» ha costituito motivo di discussione storiografica, anche fra gli studiosi di Pio XII (la cui beatificazione, ha detto il postulatore qualche mese fa, sarebbe «imminente»). Fra chi pensa che i dilemmi e i silenzi di Pio XII vadano difesi in modo avvocatesco più che capiti storicamente ci sono tre scuole: quella massimalista che vuol fare di Pio XII un salvatore degli ebrei, quella realista che spiega la scelta del silenzio come una valutazione d'opportunità diplomatica, e quella minimalista di chi dice che il papa al pari di tanti tedeschi «non sapeva» e non sapeva distinguere la specificità del genocidio nel turbine della guerra.
Dunque, capire se i protocolli arrivarono sul tavolo di Pacelli è rilevante. Robert Graham, un gesuita che ben conosceva gli archivi vaticani e ne pubblicò una parte per ordine di Paolo VI, sosteneva che fino all'ottobre '44 essi non arrivarono nella mani del papa: nonostante monsignor Armando Martillotti, segretario della nunziatura di Berna, avesse parlato di persona con Vrba, né da lì né da Budapest, apparentemente, si riuscì a trasmettere l'agghiacciante documento vuoi per gli spostamenti del fronte vuoi per le difficili comunicazioni con Roma. Intanto gli ebrei ungheresi venivano deportati e solo il 29 giugno i vescovi del luogo protestarono per le «sofferenze» inflitte alle vittime, pur dando atto che «l'influenza distruttiva e malefica» degli ebrei andava eliminata con misure «legali e giuste». I protocolli, scriveva Graham nel '96, «giunsero in Vaticano, se mai vi giunsero, solo a ottobre» del '44, quando ormai era troppo tardi, almeno per gli ebrei d'Ungheria.
I protocolli, sostiene invece Dina Porat, raggiungono Istanbul dalla Svizzera il 23 giugno, assieme a una relazione sul tragico destino degli ebrei ungheresi. L'indomani stesso Barlas ne porta copia a Roncalli: li traduce, glieli porge, ne annota la reazione («li ha letti fra le lacrime»), e percepisce un'inedita espressione di disappunto. Roncalli promette di farli avere «al suo capo a Roma», annota Barlas, ma è chiaro che è a disagio per i suoi superiori «il cui potere e la cui influenza è grande», ma che «si trattengono dall'agire». Barlas chiede perché il papa tace. Annota una risposta: «Non me lo chieda, amico mio. Dio guida le strade degli uomini e a noi sono nascoste». Però il 25 giugno Pio XII manda un telegramma pubblico al dittatore ungherese Horty, scongiurandolo di fermare «le sofferenze di tanti esseri umani». Il messaggio è privo delle atroci concessive dei vescovi, privo delle parole ebrei o sterminio, e privo d'efficacia per i 400 mila ebrei portati a morte. Secondo Graham la genericità è dovuta alle poche informazioni. Per Dina Porat è una scelta, su cui non si torna nemmeno quando arrivano in Vaticano quei protocolli su cui il delegato Roncalli aveva pianto. Non è inutile che il suo successore lo sappia.

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