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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.05.2006 Lettere delle vittime dell'antisemitismo fascista a Mussolini
raccolte da una studiosa, presto saranno un libro

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 maggio 2006
Pagina: 47
Autore: Paolo Fallai - Antonio Carioti
Titolo: «Caro Duce, sono ebreo e ti scrivo - Persecuzioni, ferita risanata solo in parte»

Il CORRIERE  della SERA di giovedì 11 maggio 2006 pubblica un'anticipazione di un libro della studiosa di letteratura ebraica Paola Frandini: una raccolta di lettere  a Mussolini  di ebrei italiani , dopo la proclamazione delle leggi razziali.
Ecco il testo:


L e più struggenti sono quelle dei bambini, scritte con una calligrafia incerta su fogli strappati dai quaderni scolastici e inviate non al «Duce», ma al figlio: «Caro Romano, prega il tuo babbo...». Oppure «È un balilla con croce di merito e capo squadra che scrive, noi siamo tedeschi cattolici di origini israelite...». Sono solo alcune delle migliaia di lettere scritte dagli ebrei italiani tra l'autunno del 1938 e la primavera del 1939 per chiedere una deroga, una eccezione, una qualsiasi difesa dalla tragedia delle leggi razziali. Sono i mesi in cui il «manifesto della razza», voluto dal fascismo, trova applicazione in una serie di decreti successivi, sempre più precisi e sempre più violenti: gli ebrei non possono frequentare le scuole e le università e tanto meno insegnare, non possono sposare italiani, essere proprietari di aziende o terreni o fabbricati. Non possono vivere.
Per la maggior parte di loro — in quel momento in Italia gli ebrei sono circa 44 mila — il precipitare delle leggi razziali è un colpo durissimo e inatteso. L'indignazione, l'amarezza, la rabbia sono schiacciate sotto lo stupore e l'umiliazione che sembra paralizzare uomini e donne — molti di loro sono fascisti — la cui vita viene travolta. Una studiosa della letteratura ebraica, Paola Frandini, autrice tra l'altro di due importanti monografie su Giorgio Bassani e su Giacomo Debenedetti ( Giorgio Bassani e il fantasma di Ferrara e Il teatro della memoria,
editi entrambi da Manni) si è imbattuta in alcune di queste lettere disperate e ha deciso, «non senza pagare un prezzo all'emozione» di ricercarle in modo sistematico per raccoglierle (diventeranno presto un libro), perché queste voci non fossero disperse.
Lettere al Duce, soprattutto, ma non solo: molte madri si rivolgono alla moglie Rachele, allegando spesso le fotografie dei figli vestiti da balilla, ma ci sono messaggi anche per la regina e per Edda Ciano. «Sono piene di adulazione — spiega Paola Frandini — per il "padre della patria", per il "grande cuore" di Mussolini. Sono lettere disperate di chi vede il mondo crollargli addosso. A leggerle nell'insieme rappresentano una inedita mappatura sociale dell'Italia dell'epoca: si va dallo sdegno dell'avvocato, all'italiano stentato di molti ai limiti dell'analfabetismo. Persone di media o di nessuna cultura, terrorizzate, che affidano le loro suppliche niente meno che a una lettera al Duce. Anche ai laureati tremava la mano».
La gestione fascista di questo fiume di richieste di pietà è un esempio di «burocrazia dell'orrore». Basta seguire le date: il 5 settembre 1938 viene varata la legge «per la difesa della razza nella scuola fascista». Il 10 settembre viene creata, nel ministero dell'Interno, la sezione «Demorazza» affidata al sottosegretario Buffarini Guidi e al prefetto La Pera. Un ordine di servizio stabilisce cosa fare degli scritti degli ebrei: «Tutte le lettere firmate, senza determinazione del Duce o di S.E. Sebastiani (Osvaldo Sebastiani, segretario di Mussolini, ndr), vanno all'Interno». Esiste una direttiva precisa del capo del fascismo: «Tranquillizzare». Sarà Sebastiani a firmare migliaia di bigliettini, tutti uguali e per questo in alcuni casi grotteschi, per illudere migliaia di ebrei italiani regalando loro un'ulteriore beffa.
Il 18 settembre 1938 Mussolini pronuncia a Trieste il discorso sulla «discriminazione»: sono le presunte facilitazioni per quegli ebrei che avevano partecipato alla marcia su Roma, o avevano avuto mutilazioni o figli morti durante la grande guerra. Paola Frandini ha raccolto anche le circa tremila lettere di coloro che speravano di rientrare in queste categorie: sono quasi tutte uguali, compilate su fogli di carta bollata da 6 lire. Non serviranno a molto, «se non — fa notare la studiosa — alla nascita della corruzione più turpe, legata alla spoliazione di chi non poteva difendersi in alcun modo. Solo chi poteva pagare otteneva qualcosa. Tutti i funzionari, i gerarchi, i sottogerarchi spremevano il possibile». Qualcosa di simile sarà ripetuto anni dopo con la «arianizzazione», meccanismo per ottenere un cognome ariano e quindi un salvacondotto, pagato a caro prezzo alla corruzione fascista e spesso del tutto inutile: molti di questi cognomi sarebbero stati «revocati» dopo pochi mesi.
Tra le lettere non mancano nomi celebri, come quello di Mariù, la sorella di Giovanni Pascoli che tenta una disperata difesa del poeta fiorentino Angiolo Orvieto, ricevendo una sprezzante risposta da Sebastiani: «L'esame della famiglia Orvieto è ormai devoluto all'apposita commissione». Ma questa microstoria della persecuzione razziale è fatta soprattutto di vicende minori, dall'angoscia di un muratore pisano — «Sono l'unico muratore ebreo» — al dirigente delle Assicurazioni Generali che conclude la sua supplica chiedendo — ancora una volta — «Se posso essere utile...». All'industriale di Ferrara Hirsch, la cui persecuzione metterà sul lastrico decine di famiglie dei suoi dipendenti. Alla severa dignità del tenente dell'Aeronautica Valfredo Segre, che all'indomani delle leggi razziali non solo lascia il grado e l'arma, ma restituisce, allegandola, la medaglia di bronzo al valor militare appena ricevuta.
«Primo Levi scrive che non è possibile capire i campi di sterminio se uno non li ha passati — ricorda Paola Frandini — prima di leggere queste lettere pensavo che le leggi razziali fossero più "comprensibili". Invece basta ascoltare queste voci per riconoscere che sono inconcepibili nello stesso modo. Possiamo solo continuare a chiederci: come è stato possibile? Come hanno potuto?».

Ecco i testi di alcune lettere, riportati dal CORRIERE:

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Archivio di Stato, alcune lettere scritte al Duce da ebrei italiani tra l'autunno del 1938 e la primavera del 1939
Castelvecchio Pascoli, 21 ottobre 1938 XVI
Duce!
Esaudite questa mia preghiera per amore degli esseri che vi sono più cari. Includete nella categoria degli ebrei privilegiati la famiglia di Angiolo Orvieto di Firenze, che ha tante autentiche benemerenze. Fate, Duce, questa grazia anche pensando che Angiolo era molto amico del mio Giovannino e del Pistelli i quali, se oggi fossero qui — pur non essendo affatto teneri per la razza ebraica — intercederebbero per lui.
Maria Pascoli
Brescia, 20 settembre 1938 XVI
Duce!
Mio figlio Leone, di anni 8, cadde un giorno sulla calce viva e rimase cieco. Fu quello il primo di tutta una serie infinita di giorni angosciosi difficili da descrivere fedelmente. Io e mia moglie decidemmo di rivolgerci al prof. Raverdino, oculista primario, presso gli Spedali Civili di Brescia, oramai noto in tutta italia per gli interventi chirurgici d'avanguardia, seguiti da spettacolose guarigioni; e l'ottimo professore ci assicurò che avrebbe guarito perfettamente il nostro bambino (...) Duce! Consentite nei miei riguardi una determinata proroga, che io possa abbandonare l'Italia, che amo, almeno col bimbo completamente guarito.
Santo Beniacar
Bresso, 5 settembre 1938
Al Ministero dell'aeronautica — direzione generale del personale militare.
Il sottoscritto, Tenente A.A. r.n. Pilota in S.p.e. Valfredo Segre, al n.151 nell'annuario ufficiale del 1938, in forza organica alla 58^ Squadriglia — 10˚ Stormo B.T. — Bresso, presa visione delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri nella odierna seduta, considerate le dichiarazioni ufficiali ed ufficiose pubblicate recentemente, essendo cittadino italiano, ebreo di religione, di origine e di nascita, non ritenendo conciliabile coi propri sentimenti religiosi e famigliari e con la propria dignità, una ulteriore permanenza nella carriera militare, si onora di rassegnare le sue dimissioni, dichiara di rinunciare al grado rivestito, chiede in conseguenza di essere radiato dai ruoli degli ufficiali dell'Aeronautica. Per gli stessi motivi intendo restituire a Sua Maestà il Re Imperatore, la medaglia di bronzo al valor militare concessami con R.D. in data 29.4.1937 e consegnatami da Sua Altezza Reale il Duca di Bergamo in Bresso il 28 marzo 1938.

Iddio è giusto. Non come te! e ascolterà l'invocazione di una Madre e dei suoi teneri figlioletti che oggi maledice e con te tutti i tuoi figli e nipoti presenti e futuri. Una madre che si vergogna di essere ariana perché da cretina si era illusa che tu fossi un genio e oggi ti ritrova un pazzo. Siate maledetti.

Infine, una recensione di un saggio sulla "reintegrazione degli ebrei nell'Italia postfascista":

I conti con le persecuzioni razziali non furono semplici da fare, nell'Italia postfascista. Non si trattava solo di cancellare le leggi antisemite, ma di porre riparo in qualche modo alle loro devastanti conseguenze sulle vite di migliaia di persone. Per giunta bisognava farlo in un Paese semidistrutto e alla fame per via della guerra. Giovanna D'Amico, studiosa delle deportazioni naziste, affronta la questione nel saggio
Quando l'eccezione diventa norma
(Bollati Boringhieri) e trae due conclusioni importanti.
La prima è che abrogare le leggi razziali non garantì «una piena riparazione dei diritti violati», perché non venne sancita la nullità originaria e completa «degli atti giuridici che avevano concretamente espulso gli ebrei dalla società». Per esempio si decise di «non azzerare per legge le vendite fatte dagli ebrei subito dopo l'avvio della persecuzione» sotto l'impulso del bisogno. E sulle riparazioni dovute a chi aveva perso l'impiego si aprì una questione ingarbugliata con polemiche anche dure, come quando il capo del governo Ivanoe Bonomi s'impose al ministro del Tesoro Marcello Soleri e ottenne che fossero messi a carico dello Stato (e non dei diretti interessati) i contributi previdenziali da versare nel periodo intercorso tra il licenziamento e la riassunzione di chi era rimasto senza lavoro per motivi razziali.
Il secondo punto è una riflessione di portata generale. Gli interventi legislativi ordinari, nota Giovanna D'Amico, erano «di per sé insufficienti a ripristinare integralmente le posizioni perdute: come restituire il danno morale, gli anni di scuola perduti, l'offesa?». Per venirne a capo, prosegue l'autrice, sarebbe stato necessario «travalicare l'ordinamento giuridico» ed emanare «una normativa specifica per le vittime», facendo « tabula rasa del passato». Così non fu. Mancava allora, e sarebbe mancata a lungo, una piena consapevolezza di quanto fosse stata grave la ferita inferta dal fascismo agli ebrei.

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