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Il Mattino Rassegna Stampa
26.03.2014 Gli arabi di Gerusalemme si drogano? E' colpa della barriera difensiva israeliana
la propaganda antisraeliana del quotidiano napoletano

Testata: Il Mattino
Data: 26 marzo 2014
Pagina: 49
Autore: Diego Del Pozzo
Titolo: «Gerusalemme, una sposa oltre il muro»
Dal MATTINO di oggi, 26/03/2014, da pag. 49, riportiamo l'articolo di Diego Del Pozzo dal titolo "Gerusalemme, una sposa oltre il muro".
Recensendo il film di Sahera Dirbas
"Jerusalem bride", Del Pozzo ripropone acriticamente i temi di propaganda antisraeliana evidentemente presenti nella pellicola: "la Palestina, sfregiata dal muro che Israele continua a costruire da oltre dieci anni separando palestinesi da altri palestinesi e limitandone terribilmente la libertà di movimento e, spesso, le possibilità di sopravvivenza(..) la quotidianità inaudita fatta di improvvise demolizioni delle proprie case o più semplicemente dell'impossibilità di andare a visitare i propri parenti o magari recarsi al lavoro senza l'intralcio dei tanti check point che puntellano il "muro della vergogna" ".
Che la "possibilità di sopravvivenza" dei palestinesi sia compromessa dalla barriera difensiva israeliana è una totale falsità. La realtà dei check point, d'altro canto, è presentata nel quadro di una tipica "menzogna omissiva". Non si fa alcun cenno, cioé, alla minaccia terroristica che li rende necessari. Allo stesso modo "le improvvise demolizioni" di case non vengono collegate a ciò che, a ben guardare, non le rende affatto "improvvise", "inaudite" o inspiegabili: la repressione dell'abusivismo edilizio, chiunque sia a commetterlo, o la risposta ad atti terroristici.
A questi temi consueti della propaganda contro Israele Sahera Durbas e Dal Pozzo ne aggiungono uno originale: anche la diffusione di stupefacienti tra i palestinesi sarebbe "
naturalmente (..) un'altra conseguenza del muro" , o meglio del fatto che Israele non reprimerebbe a sufficienza la criminalità araba...
Troppa repressione o troppa poca repressione che sia, per la propaganda il risultato non cambia: Israele ha la colpa di tutto.

Ecco l'articolo:


Sahera Dirbas

Con il suo cinema indipendente, che oscilla tra ricostruzione frazionale e approccio documentario, la cinquantenne regista Sahera Dirbas porta sugli schermi di mezzo mondo la difficile quotidianità della sua terra, la Palestina, sfregiata dal muro che Israele continua a costruire da oltre dieci anni, separando palestinesi da altri palestinesi e limitandone terribilmente la libertà di movimento e, spesso, le possibilità di sopravvivenza. Ieri pomeriggio, l'autrice ha presentato il suo film del 2010 «Jerusalem bride» all'Università di Salerno-Fisciano, nell'ambito della rassegna «Femminile palestinese - La donna, l'arte, la resistenza», a cura di Maria Rosaria Greco. Tanta commozione in sala, per una storia interamente ambientata nella città vecchia di Gerusalemme e imperniata sulla figura di Riham, un'operatrice sociale che si confronta con le proprie difficoltà personali (i problemi nello sposare l'amato Omar) e con quelle della sua gente. Attraverso lo sguardo della giovane donna, lo spettatore fa la conoscenza con un'umanità afflitta, che deve fare i conti con una quotidianità inaudita fatta di improvvise demolizioni delle proprie case o più semplicemente dell'impossibilità di andare a visitare i propri parenti o magari recarsi al lavoro senza l'intralcio dei tanti check point che puntellano il «muro della vergogna»». «Ho deciso di concentrarmi in particolare su Gerusalemme - racconta l'autrice - perché ci vivo e ho notato che in tanti ne parlano senza riuscire a restituirne il senso reale della vita quotidiana che si svolge in città vecchia e sotto occupazione». Nel film, Sahera Dirbas pone l'accento anche su un problema spesso ignorato dagli analisti internazionali: la notevole presenza della droga nei territori occupati. «Si tratta di una realtà molto presente - spiega - ma della quale nessuno parla. E, naturalmente, si tratta di un'altra conseguenza del muro, perché gli israeliani intervengono immediatamente per perseguire gli spacciatori se agiscono dal loro lato, mentre ne ignorano la presenza quando spacciano nei quartieri palestinesi. Nel film, la droga diventa un ulteriore ostacolo al matrimonio di Riham e Oman». Il cosiddetto «muro della vergogna» è una presenza ricorrente e opprimente. «Per farne percepire meglio la presenza - sottolinea la Dirbas - ho raccontato una situazione che si verifica con grande frequenza: durante la negoziazione familiare in vista del matrimonio, infatti, i futuri sposi e i loro parenti s'interrogano su dove andare a vivere dopo le nozze, se da un lato o dall'altro del muro, perché questa decisione potrebbe influenzare in profondità le esistenze future loro e dei loro cari. Col film, in definitiva, vorrei far comprendere che non ci si deve abituare alle abnormità e alle ingiustizie». La rassegna «Femminile palestinese», promossa dalle associazioni Cultura è Libertà e Osservatorio Palestina, proseguirà i124 aprile al teatro AntonioGhirelli di Salerno, con lo spettacolo teatrale «Mi chiamo Omar» di Dalal e Omar Suleiman, scritto e diretto da Luisa Guarro. E si concluderà, sempre al TAG, 1' 11 maggio col concerto del cantante libanese Amal Ziad Kaawash, che si esibirà col liutista Hel-mi M'hadhbi'oud e il percussionista John Salins.

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