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Il Mattino Rassegna Stampa
07.01.2006 Disinformazione e luoghi comuni
sul quotidiano napoletano

Testata: Il Mattino
Data: 07 gennaio 2006
Pagina: 2
Autore: Vittorio Dell'Uva-Stefano Cingolani
Titolo: «Dalle stragi in Libano al ritiro forzato da gaza»

Partiamo dall’articolo di pag.1 che continua alla 2 di Vittorio Dell’Uva.  Vengono  riproposti ancora una volta i soliti stereotipi e luoghi comuni. Fatti storici decontestualizzati e che in alcuni casi, per come vengono descritti, hanno del ridicolo (gli attacchi dal Libano del terrorismo palestinese contro il territorio israeliano per Dell’Uva divengono “la crisi con i palestinesi insediati in Libano” e di conseguenza non si capisce la necessità di quella che fu la risposta militare israeliana se non interpretandola come brutale voglia distruttiva verso dei poveri innocenti); altri, come il ruolo attivo che lo stesso Sharon esercitò per la pace con l’Egitto (al MATTINO è bene ricordarlo: quasi 30 anni fa), volutamente ignorati per avvalorare la tesi riproposta a più riprese nel pezzo della metamorfosi del cattivo che diventa quasi buono. In questo quadro è ovvia e scontata l’assenza di un serio e credibile riferimento al terrorismo stragista palestinese e l’odio antiisraeliano e antisemita che ha pervaso i paesi arabi che a più riprese hanno tentato di annientare Israele. Da notare, poi, come la Storia di Sharon versione Dell’Uva sia caratterizzata soltanto da “stragi” di cui è stato direttamente o indirettamente responsabile. Anche il titolo va in questa direzione e nelle intenzioni dei titolisti serve a descrivere lo “Sharon pre-metamorfosi” come uno spietato killer responsabile delle peggiori stragi: “Dalle stragi in Libano al ritiro forzato da Gaza”. Occhiello: “Da generale a premier una carriera da intransigente prima di accettare la realtà”. Forse quelli che dovrebbero accettare la realtà, ché Sharon nei decenni ha dimostrato di sapere adattare la propria strategia a seconda dei tempi e delle circostanze, sono proprio i titolisti e giornalisti come Dell’Uva che ancora seguitano a dimostrare di aver guardato e di guardare a Sharon, Israele e al conflitto mediorientale con le lenti del pregiudizio e dell’ideologia. Sottotitolo: “La svolta incompiuta del falco che ha scoperto la pace”. Qui, invece, il commento migliore sono queste parole pronunciate da Sharon: “Comprendo la pace molto di più di coloro che ne parlano ma non hanno mai vissuto le esperienze che ho vissuto io”.

 

Del fatto che il soldato, il generale e il politico ha speso la sua vita per la difesa del proprio paese ovviamente, tra tante escalamazioni, non c’è traccia. Quel tipo di personaggio, per Il Mattino, evidentemente rispondeva al nome di Yasser Arafat.

 

 

 

PAG. 1 + 2

 

 

 

 

L’AGONIA

 

Da generale a premier una carriera da intransigente prima di accettare la realtà

 

Dalle stragi in Libano al ritiro forzato da Gaza

 

La svolta incompiuta del falco che ha scoperto la pace

 

 

VITTORIO DELL’UVA

 

Il destino ha fermato, alla soglia dei 78 anni, Ariel Sharon proprio quando, dopo avere costruito durante la sua vita più «muri», aveva deciso che spettasse proprio a lui, il «bulldozer», aprire il varco per una coesistenza con i palestinesi cui andavano riconosciuti gran parte dei diritti a lungo negati. Ha amato la forza fino a farne ragione di vita. In battaglia come sul terreno politico. Persino per avviare un cammino di pace, per quanto incerto nei tempi e vago sul piano territoriale, non ha rinunciato a ricorrere al colpo di mano su uno scenario che, per la sua determinazione e influenza, si era fatto in Israele frammentato e politicamente piatto. Non gli è stato consentito, all’ultimo atto, di cambiare davvero la scena finale della sua vita. Bush aveva appena intravisto in lui un «uomo di pace». Gli sarebbe piaciuto che anche il resto del mondo fosse pronto a emendargli molte colpe accumulate negli anni. L’ultimo Sharon, collocatosi a una distanza stellare dall’uomo che per decenni ha odiato a morte i palestinesi, è quello che spiega alla Knesset che i destini di un popolo non possono essere decisi «soltanto dalla spada» e che sente di dover dire che «bisogna avere pietà per i deboli». Ma è anche il leader che non si attesta sulla soglia della metamorfosi di pura natura dialettica quando si spinge ad affermare che la «pace può comportare pesanti sacrifici». L’ultimo anno di Ariel è in qualche misura rivoluzionario, per l’ordine ai coloni di abbandonare la striscia di Gaza e la contrapposizione frontale agli ambienti ebraici radicali. Con le vecchie posizioni sioniste in dissolvenza poco conta che i rabbini oltranzisti passino dal sostegno alla maledizione e che il Likud, il partito che aveva contribuito a fondare all’inizio degli anni Settanta venga ridotto a una litigiosa congrega. Sharon si inventa una nuova formazione politica, Kadima, per virare al centro occhieggiando alla sinistra moderata che si ritrova intorno a Shimon Peres, uno dei grandi vecchi di Israele. Mani vengono tese verso la nuova leadership palestinese che, riempiendo il vuoto lasciato da Yasser Arafat, si è lasciata alle spalle lo spirito «combattente» e le molte ambiguità della passata gestione per essere chiamata al braccio di ferro quotidiano con le troppe milizie e con gruppi che reclamano ruoli politici attivi dopo avere conquistato consenso con una capillare azione di sostegno sociale a quanti hanno pagato il prezzo più alto per l’occupazione israeliana. L’azione politica, che ha come obiettivo finalmente accettato la nascita di uno Stato palestinese, è di tale portata da offuscare anche gli schemi etici che dovrebbero regolare la vita politica quotidiana. Ha impatto relativo l’ultimo recentissimo scandalo che tocca Sharon che si dice sia stato beneficiario di tre milioni di dollari arrivati dai gestori austriaci del casinò di Gerico. Restano in qualche misura in secondo piano i progetti più o meno segreti tendenti a ridisegnare i territori palestinesi con qualche nuova annessione e la realizzazione di una «fascia di sicurezza» intorno a Gerusalemme Est. L’ictus ferma un leader fatalmente avviato sulla strada del nuovo trionfo previsto con le prossime elezioni anticipate di marzo. È in lui che Israele ancora si identifica nonostante le radicali inversioni di rotta e peccati non sempre veniali. Nei fatti Ariel Sharon è stato sempre un buon interprete di una ampia e scalpitante fascia del Paese, quali che siano state le parentesi governative laburiste, che hanno compresso le posizioni dei «falchi» al cui partito si era iscritto fin dagli anni della adolescenza. È «in nome e per conto della difesa di Israele» che ha fatto scelte che spesso hanno avuto il carattere della sfida se non dell’azzardo. I genitori Samuil e Vera, di origine russa, lo avevano educato al culto del sionismo. A 15 anni lo aveva arruolato l’Haganà, la formazione clandestina che si batteva contro i britannici. Da comandante della «Unità 101» fu tra i responsabili della strage del villaggio di Qibya, raso al suolo nel 1953 per una azione punitiva in cui persero la vita, sessanta palestinesi. Durante la crisi di Suez del 1956 perse la fiducia del generale Dayan per avere cercato la gloria mandando a morte i paracadutisti sotto il suo comando. Paradossalmente a un altro atto di insubordinazione si deve il suo riscatto durante la guerra del Kippur. A lui rispondevano le truppe che per prime cominciarono ad avanzare nel deserto in direzione del Cairo. La marcia diventa, da allora, militare e politica. Sharon, ormai generale, è consigliere per la sicurezza del premier laburista Ytzac Rabin, poi approda con il Likud al ministero dell’Agricoltura, caratterizzando il suo mandato con l’incremento degli insediamenti in Cisgiordania. Quando la crisi con i palestinesi insediati in Libano porta nel 1982 all’operazione «Pace in Galilea», che porta gli israeliani fino alla porte di Beirut, la «strategia della vittoria » è affidata a lui che ricopre il ruolo il ministro della Difesa. Lo fermano se manifesta il desiderio di uccidere Arafat. Chiude gli occhi quando i falangisti compiono i massacri di Sabra e Chatila di cui verrà ritenuto indirettamente responsabile. Ariel Sharon fa sentire la sua voce contraria agli accordi di Oslo, trova spazio al fianco del leader del Likud, Netanyhau, che anni più tardi diventerà suo nemico. Nel 1998 è ministro degli Esteri. Si apre il periodo delle ennesime sfide mentre Israele vive gli anni dell’intifada. Il 27 settembre del 2002 innesca la miccia della seconda insurrezione palestinese con la provocatoria passeggiata sulla spianata dell moschee. La stagione dei kamikaze che successivamente si apre immerge Israele nella paura. Sharon non troppo fatica a proporsi come l’uomo forte che sa dare le risposte che l’opinione pubblica si aspetta. L’elezione a primo ministro nel 2001, scontata e trionfale, consente di agire senza troppi lacci e lacciuoli. Arafat è costretto a una semiprigionia nella sua Ramallah. Balena l’idea del muro di separazione che verrà poi realizzato tagliando la Cisgiordania per decine di chilometri. Pochi ritengono che il bulldozer possa fermarsi proprio quando i palestinesi sono più piegati che mai. Ma forse è la condizione che Sharon aspetta per una riconversione politica dal forte impatto congeniale al suo stile. È soltanto alle condizioni che detta con scelte unilaterali, che si avvia a concedere il diritto dello Stato palestinese a esistere.

 

 

 

PAG. 1 + 8

 

 

L'editoriale di Stefano Cingolani  descrive Sharon come un ex ideologo [“…ha saputo mettere in discussione anche le verità e i principi ai quali aveva sempre ispirato la propria condotta militare e politica (il sogno del Grande Israele)”] e lo definisce  complice dei falangisti maroniti nella strage di Sabra e Chatila, il che implica un ruolo attivo che Sharon invece non ebbe. Anche Cingolani, quando accenna agli avvenimenti libanesi, trascura di menzionare le attività terroristiche dei palestinesi contro Israele.

 

 

 

IL COMMENTO

 

Seguire la rotta

 

 

 


Stefano Cingolani

 

Sarà anche vero che i grandi processi storici si compiono, vichianamente, come eventi naturali. Ma il più delle volte le forze profonde che muovono le società sono destinate a esistere solo in potenza se manca chi le sappia guidare. La dote del leader è proprio quella di cogliere il vento e orientare le vele. Ariel Sharon lo ha fatto come pochi altri e adesso che un destino perverso rischia di farlo scomparire, tutti si chiedono se Israele saprà mantenere la rotta. L ’inflessibile guerriero che, nell’autunno della sua esistenza, ha saputo mettere in discussione anche le verità e i principi ai quali aveva sempre ispirato la propria condotta militare e politica (il sogno del Grande Israele) rischia di lasciare un vuoto difficilmente colmabile. E il percorso nel quale si è incamminato e dove stava portando il suo paese rischia di interrompersi drammaticamente. Esiste una scuola di pensiero secondo la quale le idee di Sharon gli sopravviveranno perché sono ormai radicate nella mente se non nel cuore della maggioranza degli israeliani. Anche per questo la mossa di spaccare il Likud e di creare una nuova formazione politica non è stata un’avventura. Kadima è, senza dubbio, il partito di Sharon, ma è anche un progetto che dà ragione alla sinistra sulla necessità, per il bene del paese, di ritirarsi da parte dei territori occupati, e alla destra sull’inaffidabilità dei palestinesi come partner di un genuino e durevole accordo di pace. Tuttavia, una operazione così complessa, per quanto interpreti una nuova consapevolezza nazionale, è solo agli inizi e si regge sul carisma di un capo che sappia rassicurare e tenere insieme le tante spinte centrifughe. SEGUE A PAGINA 8

 

 

Ehud Olmert che per il momento prenderà la guida del paese e del partito, è un politico capace e rispettato, ma sullo Ha’aretz campeggiava ieri la domanda: «È un leader?», invitando i lettori a rispondere. Ancor meno lo considerano tale i palestinesi che si preparano alle elezioni dilaniati da un conflitto aperto tra Al Fatah e Hamas e da uno scontro meno evidente, ma non meno acuto tra i vari gruppi che compongono l’instabile Autorità nazionale palestinese, guidata da un debole Abu Mazen. Il vuoto è destinato ad allargarsi all’intero Medio oriente e oltre, soprattutto agli Stati Uniti. George W. Bush ha delegato al primo ministro israeliano l’intera questione. È vero, ha compiuto un paio di incursioni e ha dato un messaggio chiaro: gli Usa vogliono due Stati che convivano uno accanto all’altro, separati e possibilmente pacifici. Sharon ha aderito senza indugi, memore del grave errore che commise nel 1982 in Libano quando perseguì l’occupazione contro la volontà americana e si macchiò di una terribile complicità con i falangisti che massacrarono i profughi palestinesi a Sabra e Chatila. E ha portato avanti con determinazione la linea, seguendo una sorta di divisione del lavoro che lasciava agli americani le forze e il tempo di dedicarsi a sconfiggere e domare alcuni dei principali nemici di Israele in Iraq o in Siria. Ora Bush può trovarsi costretto a prendere in mano direttamente anche il dossier israeliano-palestinese che per Clinton divenne prima un incubo, poi una cocente sconfitta. Il tutto mentre non è stata ancora definita una exit strategy per l’Iraq e venti di guerra soffiano sull’Iran. Il fattore tempo può diventare micidiale. Le elezioni palestinesi prima e israeliane poi (confermate per il 28 marzo) daranno un quadro più chiaro. Ma la tragedia di Sharon potrebbe creare una accelerazione imprevista e indesiderata. Sul fronte interno è difficile fare qualsiasi pronostico. Kadima potrebbe godere di una sorta di spinta emozionale. E in nome del suo fondatore ottenere un buon risultato (i sondaggi lo davano al 40%). Ma l’onda delle emozioni potrebbe anche giocare in senso contrario, spingere allo scoramento, indurre molti ancora incerti a tornare a casa. Il rischio è grande perché alla guida del Likud e dei laburisti ci sono due politici radicali. Benjamin Netanyahu è un uomo nettamente di destra, così come l’ex sindacalista Amir Peretz è chiaramente di sinistra. Lo scontro tra i due spaccherebbe un paese che, invece, sente il bisogno di una guida centrista dopo anni di lacerazioni, di sangue, di lutti. E il dilemma maggiore riguarda proprio il processo di pace con i palestinesi. Una vittoria di Hamas e una frantumazione dell’Anp, da un lato, una spaccatura politica in Israele dall’altro, possono far esplodere un’altra fase di guerra guerreggiata. È questo il timore di tutti. Il ritiro da Gaza ha avviato ormai un processo irreversibile, sostengono molti che hanno vissuto dall’interno quello che per certi versi è apparso un grande trauma nella psicologia israeliana. Il lutto è consumato, insistono, e l’unica voglia è di andare fino in fondo. Può darsi che nel medio periodo abbiano ragione loro. C’è da augurarselo. Ma nel breve periodo nulla può essere dato per certo. Stefano Cingolani

 

 

 

PAG.4

 

 

Di Moni Ovadia alcune osservazioni  rozze e farneticanti (dice, senza fare alcuna distinzione, che gli “ebrei ultraortodossi”, par di capire tutti, stanno gioiendo, alla pari di Hamas, per la grave malattia di Sharon. Eppure noi tutti – Il Mattino pubblica anche una foto - gli ultraortodossi li abbiamo visti pregare per Sharon ai piedi del Muro del Pianto) e altre a dir poco fantasiose (Sharon, secondo l’Ovadia pensiero, ha elaborato la sua strategia perché si è reso conto del fallimento di Bush in Iraq).

 

La ciliegina sulla torta è il pensiero che Ovadia dedica al povero Barghouti, assassino di ebrei, che il nostro si augura presto libero.

 

 

Moni Ovadia: «Mi auguro l’alleanza tra Likud e Labour»

 

 

 


Per Moni Ovadia, «Sharon ha capito che il fallimento della missione irachena di Bush avrebbe scatenato un nuovo terrorismo che, inevitabilmente, si sarebbe tradotto in un odio ancor più parossistico verso Israele e gli ebrei. Non è un caso nè un paradosso se adesso, a gioire delle gravi condizioni di salute di Sharon, sono sia gli ultraortodossi ebrei che i palestinesi estremisti di Hamas». Che sarà nel dopo-Sharon? «Non credo che si possa tornare indietro dalla via da lui indicata, sebbene unilateralmente.E in questo senso credo che la liberazione di un personaggio come Barguti potrebbe rivelarsi lungimirante: è l'unico che ha l'autorevolezza e il riconoscimento popolare per porsi quale vero leader palestinese del dopo-Arafat.Quanto a Israele, non penso che il progetto politico del nuovo partito Kadima andrà avanti senza Sharon. Mi auguro un'alleanza fra il Labour e i centristi usciti dal Likud: una sorta di grosse koalition in salsa israeliana...».

 

 

 

PAG.5

 

 

 

Il titolo dell’articolo dedicato alle reazioni del mondo arabo annacqua l’indifferenza e la gioia di molti arabi dovute all’odio antiisraeliano e antisemita adducendo, invece, la motivazione che Sharon “è un uomo di guerra”. Vero! Sharon ha combattuto le guerre scatenate proprio dagli arabi per distruggere Israele e il suo popolo.

 

Il sottotitolo riporta correttamente le parole del dittatore iraniano.

 

 

L’indifferenza del mondo arabo: è un uomo di guerra

 

 

a pag.2, una colossale menzogna posta in bella mostra. Nella parte alta della pagina ci sono tre foto che si riferiscono a momenti storici differenti della vita di Sharon. La terza riprende delle donne dall’aspetto terrorizzato, la didascalia è la seguente: “IL MASSACRO DEI PROFUGHI PALESTINESI” e sotto: “Dopo l’invasione del Libano, il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila la cui responsabilità ricade direttamente su Ariel Sharon”.

 

 Questo è il livello bassissimo dell’informazione divulgata dal quotidiano napoletano.

 

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