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Il Mattino Rassegna Stampa
19.12.2005 Su Sharon dell'Uva ricopia il proprio temino
e ripete tutti gli stereotipi sul leader israeliano

Testata: Il Mattino
Data: 19 dicembre 2005
Pagina: 1
Autore: Vittorio dell’Uva
Titolo: «Paura per Sharon colpito da lieve ictus A Gaza si fa festa - Ariel, dal braccio di ferro alla «realpolitik»»
Circa un mese fa iniziavamo così una critica ad un’analisi di Vittorio Dell’Uva pubblicata su Il Mattino: <>

E' incredibile come queste parole vadano benissimo anche per quello che scrive il 19 dicembre lo stesso giornalista. Sembra uno scolaretto che non riesce ad andare oltre la lezioncina imparata a memoria. Qualunque cosa accada in Israele ripropone sempre il solito articolo fotocopia contenente i soliti luoghi comuni e i soliti stereotipi (il "falco", lo "sceriffo", la "passeggiata" ecc. ecc.).

Sottolineiamo soltanto su un passaggio che funge da premessa al resto del pezzo: "Aveva tracciato per il prossimo anno un percorso, che fino ad un paio di anni fa a lui, mastino della politica mediorientale, non sembrava particolarmente congeniale: quello dello sviluppo del processo di pace e di una intesa, sia pure alle sue condizioni, che dovrà portare alla nascita di uno Stato palestinese indipendente con cui provare, finalmente, a convivere".

Sarebbe ora che giornalisti come Dell’Uva ammettessero, invece di propagandare la tesi della "metamorfosi" sharoniana, che la propria visione delle cose è stata fortemenmte viziata, e continua ad esserlo, da un pregiudizio ideologico. Troppo facile, adesso, dire che è l’altro ad essere cambiato: Sharon negli ultimi anni ha seguito una politica coerente e lineare che molti "esperti" nostrani non hanno compreso o hanno volutamente ignorato. Forse semplicemente perché sono restii a convincersi che le possibilità di pace passano per la sconfitta dei terroristi (quest’ultimi, in un passaggio dell’articolo di Dell’Uva, sono gente "disperata").

Ecco l'articolo:

Aveva tracciato per il prossimo anno un percorso, che fino ad un paio di anni fa a lui, mastino della politica mediorientale, non sembrava particolarmente congeniale: quello dello sviluppo del processo di pace e di una intesa, sia pure alle sue condizioni, che dovrà portare alla nascita di uno Stato palestinese indipendente con cui provare, finalmente, a convivere. Arik il «falco», senza ritirare completamente gli artigli, si era piegato alle esigenze della realpolitik tenendo d’occhio l’andamento demografico di un Paese destinato rapidamente e fatalmente ad arabizzarsi. L’uomo che aveva dato risposte alle paure si era ritrovato d’improvviso ad esorcizzarle, confidando al suo entourage l’irreversibilità, quali che fossero i costi, di una personalissima mutazione genetica.

Uno dopo l’altro, dai giorni in cui aveva deciso unilateramente il ritiro da Gaza, gli ambienti più conservatori della destra israeliana animati dai coloni e dagli irriducibili della Fede, erano finiti nell’angolo. Terremotati, al pari del quadro politico nazionale andato in frantumi, assieme ad antiche certezze. Ariel Sharon aveva ripudiato il Likud di cui 30 anni fa era stato tra i fondatori trovando, oggi, intollerabili le posizioni oltranziste, un tempo condivise, che al suo interno si erano delineate. Dal destabilizzante gioco del domino non era uscita indenne la sinistra laburista, indotta ad arrovellarsi e in qualche misura a spaccarsi. L’ictus che ha colpito ieri il premier israeliano e sulle cui conseguenze i medici dell’ospedale Hadassah non si sono ancora pronunciati, costituisce la variabile impazzita di un processo politico tumultuoso, a tratti confusionale, ma soprattutto non ancora definito. Se il perno su cui ruota restasse per qualche tempo inattivo, in assenza di una leadership alternativa dotata di eguale carisma, tutto potrebbe essere messo in discussione con pesanti ripercussioni sulla prossima tornata elettorale che a marzo disegnerà una Knesset animata da nuovi soggetti politici. Nè mancherebbero riflessi di forte portata sull’altra faccia della Luna, l’emisfero palestinese del dopo Arafat in cui cerca, con qualche fatica ("qualche fatica"??? ma cos’è una battuta!?), di affermarsi una leadership moderata. Le «svolte» possono rapidamente dissolversi se è costretto ad assentarsi dalla scena chi, più che concordarle, le ha imposte. È il caso di Ariel Sharon, lo «sceriffo» chiamato nel 2001 alla guida del governo israeliano per contrastare la fase più dura della seconda Intifada, cui faceva da sanguinosa cornice un terrorismo di natura islamica che esaltava il martirio di credenti e disperati iscrittisi nella schiera dei kamikaze. Con i laburisti, fautori del dialogo, fattisi balbettanti e con livelli di insicurezza nel Paese sempre più elevati, non aveva faticato a proporsi come il salvatore della patria in grado di spezzare le reni all’avversario. Un ruolo che con alterne fortune e diversi livelli di responsabilità aveva già svolto, fin dai tempi dell’Haganà, le formazioni paramilitari israeliane che davano la caccia agli arabi nei giorni del mandato britannico sulla Palestina. È Sharon, eroe della guerra del Kippur, dopo la parentesi buia del conflitto dei «sei giorni», che pianifica l’operazione «pace in Galilea» che nel giugno del 1982 comporta l’invasione del Libano e che chiude gli occhi di fronte alla strage di Sabra e Chatila di cui verrà ritenuto indirettamente reponsabile. È ancora Arik che sfida l’orgoglio palestinese comprando una casa a Gerusalemme Est e compiendo una passeggiata sulla Spianata delle Moschee che scatenerà l’Intifada numero 2. È a lui, non meno che ad altri, che va attribuita la «grande espansione» nei Territori attraverso il progetto per la realizzazione di 140mila alloggi per nuovi coloni, firmato da ministro della Edilizia. Nè da premier verrà meno al «mandato» autorizzando le «esecuzioni mirate» e costringendo Arafat a vivere in condizioni di assedio alla Muqata, la residenza sotto tiro di Ramallah. Ipotizzare che a 77 anni compiuti potesse decidere che la difesa di Israele comportasse anche qualche sacrificio «territoriale», era oggettivamente azzardato. Paradossalmente oggi non sono più gli estremisti ad augurarsi che il suo programma non resti incompiuto.
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